12 aprile 2020

GUARDANDO OLTRE IL CONTAGIO

Uno sguardo a 360° su sanità ed economia


Giancarlo Lizzeri e Pippo Ranci in questo articolo guardano al problema della ripresa con uno sguardo a 360°. Lo scenario descritto e e i suggerimenti dati non lasciano fuori nulla. Quello che ne emerge è la terribile complessità del problema della ripresa tre scelte meramente tecniche e scelte politiche.

Foto di Nicolò Maraz (dettaglio)

Foto di Nicolò Maraz (dettaglio)

Benché non sia facile far previsioni, bisogna pensare al dopo. Il dopo, come l’oggi, ha diversi aspetti. C’è il funzionamento del sistema sanitario e quello del sistema economico, di cui ci occupiamo in queste righe. Ci sono poi i problemi della povertà emergente e della possibile conflittualità, di cui non ci occuperemo qui.

Per la sanità è in corso un acceso duplice dibattito su com’è stata affrontata, pur nella carenza di mezzi, l’imprevedibile tempesta e su come, nel lungo periodo precedente, si è preparata quella carenza, più o meno inconsapevolmente.

In particolare la Lombardia è stata la regione italiana maggiormente travolta, e ci si chiede perché. Qualcosa di simile è accaduto anche in altre aree fortemente urbanizzate come Madrid e a New York. Qui si possono individuare, in retrospettiva, almeno tre errori, che suggeriscono altrettante linee di azione.

Rimettere in sesto il sistema sanitario lombardo

Il primo filtro a qualsiasi epidemia è costituito dalle strutture sanitarie di base. Ai medici di base la Regione Lombardia non ha dato per settimane alcuna indicazione circa le procedure da seguire e i comportamenti da adottare. Solo con grande ritardo, e quando la ricettività ospedaliera era satura, si è fatto ricorso prevalente al ricovero domestico. E anche in questo caso con pochissima attività di monitoraggio sui contagiati extra-ospedalieri e con interventi molto tardivi nel reperire soluzioni logistiche ad hoc che permettessero di tenere in isolamento effettivo le persone contagiate che non richiedevano un ricovero ospedaliero. La requisizione, a questo scopo, di 20 alberghi vuoti, come quella che ha fatto il Comune di Milano con l’Albergo Michelangelo, avrebbe aiutato forse più della creazione di un ricco nuovo ospedale in Fiera.

Alla rete sanitaria di base in Lombardia non si è data l’importanza che merita, per un lungo periodo precedente l’emergenza, al quale bisogna guardare al fine di trarne indicazioni per il futuro. La si è curata meno in Lombardia rispetto ad altre regioni contigue, come oggi molti fanno notare. Si è assecondata la preferenza di molti medici per il lavoro individuale quando invece una rete territoriale che voglia offrire un servizio continuativo e affidabile deve offrire loro l’occasione per aderire a piccole unità associate o cooperative, che siano operative 24 ore su 7 giorni e consentano di tenere sotto stretta sorveglianza (con auto-monitoraggio telefonico, tecnologico e domiciliare) molti pazienti anziani e fragili evitando ospedalizzazioni costose.

Secondo errore: mentre i cittadini sono stati bombardati di istruzioni (stare in casa, lavarsi le mani, distanziarsi), a lungo non si sono date disposizioni al personale ospedaliero. Non sarebbe stato difficile evitare da subito una commistione fra zone Covid e non Covid dentro gli ospedali, separando il personale e applicandogli un monitoraggio sistematico per impedire che esso stesso diventasse un moltiplicatore del contagio.

Occorreva infine stendere una rete protettiva totale intorno alle RSA, che sono divenute invece una bomba epidemica, ancor più dove queste si sono prestate, su invito della Regione, a ospitare contagiati Covid in convalescenza. A proteggere le RSA sono riuscite, più o meno, le altre due regioni più colpite, Veneto ed Emilia Romagna.

Tutto questo è evidente oggi, a posteriori, ma forse è anche quello che il buon senso avrebbe suggerito se le strutture ospedaliere non fossero divenute da tempo un’ossessione un po’ totalizzante per la Sanità della Regione Lombardia. E anche riguardo all’area in molti casi eccellente degli ospedali, è noto da anni che le procedure sanitarie in atto, nei reparti di terapia intensiva in particolare, non sono generalmente adeguate a ciò che occorre di fronte alle infezioni “gravi” (uno di noi, Lizzeri, ne ha scritto, con qualche documentazione, su ArcipelagoMilano poco tempo fa).

Orientare la ripresa economica

Ora guardiamo alla crisi economica, già ora pesantissima e che sarà in prospettiva assai lunga. Metà economia italiana si ferma per due mesi: due mesi di fermo per metà dell’economia valgono l’8% del Pil di un anno. Parti importanti della nostra economia rimarranno al palo per un periodo di tempo assai più lungo. Il 13 % del nostro Pil è legato al turismo, ben più che in Francia, Germania o Gran Bretagna. Metà dei nostri ricavi da turismo provengono dall’estero, dove prevale la prenotazione anticipata. I settori della moda, del lusso, del mobile e del design fanno un altro 7 per cento, e sono beni nei quali eccelliamo, ma che in tempi di crisi pochi hanno voglia di acquistare. Altri pezzi importanti della nostra economia, come ristoranti, svago, sport, palestre, benessere ecc. avranno una ripresa contingentata per necessità di gestione della pandemia, quindi avranno un fatturato scarso per buona parte dell’anno. Complessivamente si tratta di un altro 7-8 per cento della nostra economia. Tirando le fila, le previsioni correnti di un calo del Pil sotto il 10% sono probabilmente ottimistiche e la caduta per il 2020 potrebbe avvicinarsi al 20%. Si deve far di tutto per sperare che già l’anno prossimo si recuperi gran parte del reddito perso quest’anno. Lo tsunami economico sarà ancor più devastante dello tsunami sanitario.

Dovremo conciliare due strategie d’uscita. Una è la via del “prima vivere e poi filosofare”. Mettere soldi in mano alla gente, quasi come buttare banconote dall’elicottero. Così almeno la macchina economica non si ferma, le imprese lavorano e non licenziano.

L’altra è la via che si suole definire “cambiare modello di sviluppo” o, per uscire dal gergo, ricostruire evitando di ricreare le distorsioni che ci hanno portati alla crisi. Correggendo un sistema che è stato, e ancora è, più attento all’interesse aziendale o individuale che alla salute pubblica, alla tutela dell’ambiente, ai beni d’interesse generale.

C’è ovviamente un problema di tempi: la seconda via è complessa, richiede scelte e pianificazione, e intanto la gente deve vivere. Ma la crisi è anche un’occasione: se la lasciamo passare non è detto che si ripresenti.

Strategie

Ci sono settori dell’economia italiana sui quali va fatto uno sforzo di cambiamento profondo e rilancio robusto, il più presto possibile.

Facciamo solo qualche cenno. Sanità e istruzione sono i due grandi capitoli di investimento sulle persone in cui il Paese non deve fare sconti. Della sanità sappiamo e il Paese ne sta prendendo atto. Abbiamo scoperto o riscoperto anche che tanti italiani trascorrono gli ultimi anni di vita in condizioni sanitarie e umane inadeguate, talvolta lesive della loro dignità.

Il nostro sistema scolastico deve abbattere la dispersione e cessare di creare disoccupati o male-occupati. Dobbiamo imparare dagli inglesi o dagli olandesi come devono funzionare le università e dagli svizzeri o dai tedeschi come si fa la vera formazione professionale.

Poi ci sono gli investimenti nelle infrastrutture. Nel nostro Paese siamo ben al di sotto del livello necessario per evitare i ricorrenti fenomeni di dissesto idrogeologico. Per la difesa dell’ambiente e la minaccia del cambiamento climatico c’è molto da recuperare. Il ciclo idrico, acquedotti e depuratori, ha bisogno di investimenti per decine di miliardi, e lo stesso vale per il ciclo dei rifiuti.

Le uniche reti che funzionano in modo adeguato sono quelle energetiche. Tuttavia la rete elettrica deve adeguarsi all’avvento delle rinnovabili intermittenti che rivoluziona i flussi. Quella del gas deve fare i conti con un’incertezza: il gas sarà in calo come tutte le fonti fossili o in aumento perché è più pulito e più flessibile delle altre?

La rete delle telecomunicazioni deve affrontare la sfida delle generazioni tecnologiche in rapida successione (dal 4G al 5G e avanti ancora). Per ferrovie, specie metropolitane, trasporto stradale e porti c’è tantissimo da fare, con l’esigenza di fissare le priorità vere, evitare gli sprechi delle grandi opere poco utili, assicurare preventivamente la concordia delle istituzioni e il consenso dei cittadini per non accrescere la mole ingente delle opere interrotte.

Più si guarda dentro le cose da fare e più si constata che non è solo, e forse neanche principalmente, questione di soldi. Lo scontro politico su eurobond e MES verte solo su una parte del problema, mentre quella che è da recuperare urgentemente è una capacità di prendere decisioni coerenti a livello nazionale e regionale – locale, di spiegarle chiaramente e di attuarle con efficienza e tempestività. Altrimenti avremo fatto un pandemonio per avere fondi e non riusciremo a spenderli. Altrimenti continueremo a spendere per non risanare l’Alitalia e per tenere aperte le infinite partite post-sismiche dell’Italia centrale, e continueremo a vedere le navi da crociera parcheggiate nel bacino di San Marco, tanto per citare titoli di cronaca.

Non abbiamo la ricetta magica. Probabilmente un grado di maggior centralizzazione delle decisioni sarà necessario. Forse serviranno commissariamenti. Certamente sono necessarie semplificazioni procedurali e una miglior definizione delle responsabilità a tutti i livelli. Le soluzioni potranno essere diverse per problemi diversi. Se non si riprende una capacità di governare i processi, resta solo la strategia dei soldi dall’elicottero e il sistema economico uscirà più debole di prima.

Saremo più digitali

In questa improvvisa stagione di lock-down ci siamo abituati a comunicare online e persino a tenere riunioni online. Moltissime imprese, enti, scuole e associazioni hanno preso a lavorare a distanza. Moltissime persone che non avevano pratica di comunicazione elettronica se la sono fatta, e ciò che abbiamo imparato ci resta. Abbiamo visto che cosa può essere lo smart working, la scuola online, l’assistenza medica e psicologica da remoto, il sostegno morale con il tablet agli anziani isolati.

In Italia oggi ha una diffusione quasi universale solo tutto ciò che si può fare sul telefono: su questo siamo più o meno alla pari con gli altri Paesi. Ma siamo ancora molto indietro per quanto riguarda il “digitale serio”. Per fare un bonifico online, dialogare online con la pubblica amministrazione, lavorare da remoto per la propria azienda, fare lezioni da remoto occorrono sia un buon collegamento su rete fissa e un buon computer sia anche una pubblica amministrazione capace di stare online, insegnanti che sanno gestire una classe online, e imprese che sanno gestire lavoro e riunioni online.

Nei due mesi e più di scuole chiuse un terzo dei ragazzi sono rimasti completamente isolati dalla scuola e anche per molti ragazzi non isolati la scuola non è stata in grado di offrire gran che. La scuola può e deve far molto di più. Innanzitutto per gli stessi insegnanti (che spesso sanno di tecnologia online meno di molti loro alunni). E subito dopo per i ragazzi che ancora non hanno accesso alla rete. E poi magari per tenere in futuro la scuola aperta nei pomeriggi o nei week-end per alfabetizzare al digitale quel 50% della popolazione adulta che non ne fa uso o ne fa un uso del tutto marginale. Tutto questo non costa molto.

Costa di più portare “in fretta” fibra ottica e riempire lo spettro delle frequenze adatte alla rete 5G, ma questa è un’infrastruttura – Paese indispensabile. L’abbiamo già citata tra le cose da fare subito. L’indice europeo DESI (Digital Economy and Society Index) sulla digitalizzazione dei vari Paesi vede l’Italia ventiquattresima su 28 stati, con un indice digitale pari a 44 quando la media UE è 52,5 e la Finlandia tocca livello 70. Il ritardo va colmato in fretta.

Saremo comunque più globali, non meno

Il contagio provoca spesso, come prima reazione, la chiusura dei confini. Mandare indietro i possibili portatori chiudendo i porti e gli aeroporti. In un paesino agricolo hanno sbarrato la strada con le rotoballe di fieno per non far tornare a casa i concittadini emigrati nelle zone contagiate. È istinto di sopravvivenza, comprensibile ma sterile.

Lo stesso coronavirus ci conferma che siamo inevitabilmente interconnessi, nel male ma anche nel bene: anche la ricostruzione non può che essere globale.

Le Ferrari, il parmigiano, le macchine utensili e la moda sono frutti del lavoro italiano apprezzati nel mondo. Su questo tipo di successi e di esportazioni si fonda lo sviluppo industriale e il futuro dell’occupazione qualificata in Italia.

I buoni del tesoro italiano invece sono meno apprezzati e lo Stato italiano oggi deve pagare due punti d’interesse in più rispetto ai bond tedeschi per farseli comperare. La percentuale di debito pubblico finanziata dall’estero è più bassa per l’Italia che per gli altri grandi paesi occidentali.

Un recupero di capacità decisionale, d’investimenti strategici e di autorevolezza delle istituzioni serve anche a rendere possibile l’abbattimento di questi differenziali storici. Sarebbe così più credibile una traiettoria graduale di rientro dal debito, senza insolvenze né straordinari salvataggi. Si tratta soprattutto di rendere l’Italia un Paese in cui investire renda quanto e magari di più che in altri Paesi.

Giancarlo Lizzeri* e Pippo Ranci**

*Ricercatore
** Già Presidente Autorità per l’energia elettrica e il gas



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  1. laura ruschettaMi piace, sono d'accordo, mi sembra una buona visione complessiva ......MA MANCA dai radar quella che, a mio avviso, é il problema principale del nostro paese: la lotta ALLE MAFIE, ALLA CORRUZIONE ALL'EVASIONE FISCALE. Come spesso viene ricordato una montagna enorme di denaro che potrebbe essere utilizzata per ricostruire o rafforzare la SANITA' PUBBLICA, e per potenziare LA SCUOLA, lottando contro l'evasione scolastica ... GRAZIE
    17 aprile 2020 • 21:39Rispondi
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