11 aprile 2020

IL “MODELLO MILANO” NON È RESTAURABILE

Che fare? Tornano d’attualità le premonizioni di Carla Ravaioli


Una carrellata del passato urbanistico della città. La debolezza dell’amministrazione pubblica priva di una qualsiasi visione e dunque inesorabilmente subalterna alla speculazione e alla politica del “fare”.

Foto di Nicolò Maraz (dettaglio)

Foto di Nicolò Maraz (dettaglio)

Non possiamo pensare a un rilancio del Modello Milano, anche se completamente restaurato. Del resto, come farlo quando “Il sistema mondiale dell’economia moderna” (Immanuel Wallerstein), quarant’anni fa stava precipitando verso una crisi cumulativa, ben di là dai crolli finanziari ricorrenti. Il whirl capitalism duro e impuro si apprestava a strangolare il mondo. Con l’avanzare del millennio la crisi diveniva incontenibile; ne parlavano tutti i giornali internazionali.

Secondo Carla Ravaioli (1923-2014), autrice di un ultimo saggio, “Ambiente e pace una sola rivoluzione”, il momento era propizio a un cambiamento della politica mondiale. La globalizzazione ha poi fallito e tutti noi cittadini paghiamo il prezzo dei danni con la continuità di una crisi economica e sociale universale superiore a tutte le precedenti. Il “giocattolo rotto” (sempre la nostra Carla) non è aggiustabile: potrà instaurarsi una nuova economia deglobalizzata, punto di partenza verso una trasformazione del mondo? Non lo crediamo.

Dinnanzi alla enormità e potenza della crisi e alla rovina del libero mercato, pensiamo a una “pura e semplice” rivoluzione. Ma, quali sarebbero le classi sociali numerose e forti in grado di promuoverla? La classe operaia, dispersa e povera, oltre che redditualmente, culturalmente e politicamente, non possiede più neanche la coscienza del ”per sé”, la borghesia produttiva si è ridotta alla speculazione finanziaria e fondiaria; se ne frega del bene comune e pratica essa, come ha sostenuto Luciano Gallino, la lotta di classe avverso i ceti subalterni e accumula ricchezza spogliandoli anche del minimo di risorsa vitale1.

Con tutto questo, come credere a un’“eccezione Milano”? Lo era, quando «capitale economica e morale» (si diceva) funzionava bene in ognuno dei suoi organi e nel loro insieme coeso, come un corpo sano. Era città madre della borghesia produttiva e della classe operaia: questa la singolarità milanese. Poi, diventata capitale della speculazione immobiliare e degli affari mafiosi, rifuggirà da tutte le funzioni indispensabili per la buona vita di abitanti, residenti o frequentatori…

Addirittura prima che questo avvenisse su scala nazionale le due classi locali antagoniste e protagoniste, ragione primaria dell’organizzazione urbana conveniente per la comunità, si sono sciolte. Al posto dei borghesi, non eredi dell’illuminismo ma illuminati, un ceto finanziario, proprietario, commerciale; al posto degli operai, impiegati (i nuovi operai?), negozianti, pensionati. Era città di industria caratteristica per diversificazione della produzione e della dimensione. Distrutte inopinatamente o dislocate le fabbriche, è diventata unicamente centro di due abnormi mercati improduttivi, quello della merce più preziosa, il denaro, e quello dei terreni.

Milano esibiva belle case della borghesia e anche del ceto medio allineate nelle eleganti strade dell’Ottocento e del Novecento e dignitosi quartieri popolari semiperiferici, specie dell’Istituto autonomo case popolari (Iacpm, oggi Aler per evidenziare che l’istituto è diventato una qualsiasi azienda). Architettura della città, questo volevamo riconoscere, preservare e consolidare: gli isolati, le strade, le cortine architettoniche uniformate dall’altezza, le piazze, i giardini interni.

Gli enti pubblici custodivano una parte del potere e non erano, come adesso, dipendenti in toto dai poteri economici. Tuttavia l’urbanità non deteneva forza sufficiente per resistere alla più smaccata deregolamentazione edilizia: violente alterazioni nel patrimonio esistente; costruzioni mostruose, specie in forma di grattacielo, laddove ci fosse un’area vuota di cui la fittizia urbanistica comunale, nemica della pianificazione, esigesse il riempimento edilizio privato anziché la destinazione a parco o altra precisa utilità sociale.

Dell’efficace ordinamento urbano era parte fondamentale la rete di tram, un mirabile sistema unico in Italia. In seguito, la politica municipale del trasporto, compiacente verso l’abuso dell’automobile, raggiungerà il traguardo, auspicato dai liberisti, dei tagli, della riduzione dei percorsi, dell’abolizione del collegamento più moderno, quello da periferia a periferia passando per il centro.

La città richiamava nuovi abitanti, fattore essenziale di un riequilibrio demografico necessario alla vita urbana. Oggi, dopo la perdita di residenti cominciata a metà degli anni Settanta, ne ha quasi mezzo milione di meno e solo l’arrivo di immigrati non comunitari ha prodotto l’inversione della tendenza, benché non abbia potuto finora ripianare il forte scompenso, causa di gravi distorsioni nel mercato del lavoro, nel mercato delle abitazioni e nei servizi sociali.

Il vecchio piano regolatore generale sancì la fine della pianificazione urbanistica. Presto cominciò a perdere i pezzi sotto la mannaia delle varianti pubbliche per favorire la ricostruzione privata della città tutta rivolta alla speculazione e non alla risoluzione dei problemi sociali. Milano, approdata al dominio dei capitalisti rentier, ha cambiato fisicamente se stessa qua e là, cambiando così anche la totalità; ha promosso l’erezione insensata di cubature edilizie enormi, avulse dai contesti urbani e dalla domanda sociale: volumi destinati in parte all’inoccupazione, tuttavia capaci di riprodurre plusrendita nel processo incessante di compravendita.

Accantonati gli spropositi edilizi del dopoguerra dovuti alla lassista legge sulla ricostruzione, Milano riusciva a superare gli errori anche mediante l’affermazione di un razionalismo meno schematico e l’avvento di opere dei giovani architetti succeduti alla generazione dei maestri. Non bastava: la parte di città storica compatta è stata sottoposta a molteplici vessazioni, compendio di vecchi e recenti neo-liberismi: in basso parcheggi sotterranei multipiano in spazi pubblici di alto valore storico e sociale; in alto sopralzi di ogni genere, uno, due e più piani sfruttando, anche capziosamente, la trasformistica legge regionale per il riutilizzo dei sottotetti anche dove non ne esistano e la demenziale «regola» della Tslp (Traslazione di superficie lorda di piano).

Intanto continua l’ “Invasione degli ultracorpi” dentro e fuori della cerchia spagnola, come vivessimo un tardo sequel del film datato 1956. Non baccelloni2, ma grattacieli firmati piuttosto che progettati dagli architetti internazionalisti, attenti servitori degli imprenditori di turno, ai quali garantiscono il perseguimento fino all’ultimo centimetro cubo della smisurata volumetria concessa dall’amministrazione comunale.

Il Comune ha accettato qualsiasi intervento; persino l’affastellamento di una miriade di grattacieli sul terreno di Manfredi Catella (in realtà Hines) che i milanesi ricordano destinato una volta ai «baracconi»: un complesso privo di spazi aperti, percorsi interni incerti, bui, come conducessero al nulla. Centinaia di terrazzi di calcestruzzo armato sporgenti, privi di piante da giardino nonostante sia evidente il tentativo di imitare il successo del Grattacielo Verde. Peggio dei «baracconi», la schifezza catelliana è ignorata dalla giunta comunale che l’aveva provocata e dai giornalisti milanesi.

Nella Milano d’oggi qui descritta si è re-introdotto un carattere che ho cercato di esorcizzare con lo scritto-guida: “Dov’è la bellezza di Milano” (ossia la bruttezza). Nove anni fa Valerio Onida, ascoltato in un’intervista a Radio Popolare, parve esagerare: “Non ci piace la Milano brutta, trasandata, lontana dagli standard di vivibilità delle metropoli europee”. Il passaggio del tempo non ha comportato una svolta quantomeno estetica? Semmai, se sono state le cosiddette Nuove Milano a dominare la costruzione della città, hanno vinto tutte le componenti peggiori del processo edilizio, strutturali e sovrastrutturali.

Che fare? Può Milano preparare e realizzare un proprio rivolgimento costitutivo in mancanza della rivoluzione? Ad ogni modo, la condizione spaventosa apparentemente causata del corona-virus riguarda il tutto, è la vita stessa, è perdita della vita. Dobbiamo ripartire dalla premonizione di Carla Ravaioli. Il “momento propizio” è quello che stiamo vivendo ora. Oltre che impossibile sarebbe sbagliato ricostruire ciò che è stato distrutto, del resto dove si troverebbero le risorse per farlo, peraltro ridotte in briciole se esistenti?

Dobbiamo cancellare qualsiasi ipotesi di riedizione del famigerato modello di un capitalismo pervenuto al massimo grado di sviluppo mangiando sé stesso come l’uroboro – il serpente che s’inghiotte imboccando la coda. Dobbiamo ricominciare retrocedendo nel tempo e nello spazio del mondo alla ricerca di un passaggio verso altre organizzazioni vitali. Secondo Marx la crisi sociale contemporanea avrebbe potuto terminare “con il ritorno alla proprietà comunitaria ‘arcaica’ e non si lascia spaventare dal termine ‘arcaico’”. Nella proprietà comunitaria collettiva (città e nazione dei comunisti) ritroveremmo rapporti sociali di ben più alto valore che nella proprietà privata. L’arcaismo da sperimentare costituirà esso la nuova modernità.

Lodovico Meneghetti

1 L. Gallino, “La lotta di classe dopo la lotta di classe”, intervista a cura di Paolo Borgna, Laterza, Roma-Bari 2012
Il fim di fantascienza “Invasione degli ultracorpi” racconta di una cittadina californiana invasa, appunto, da grandi baccelli (di fagioloni) extraterrestri che sinsinuano nei corpi durante il sonno. Così gli alieni si stanno impadronendo della Terra.3 vedi Città bene comune – Casa della cultura
4 L. Krader, Quando Marx studiava i primitivi, in «Rinascita», n. 10, 1978, p.21



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  1. paolo cogliatiLodovico, lucido e brillante ! Milano dei rassegnati, degli assuefatti e intontiti. Milano, la nostra città, dove il verde è demagogicamente “verticale”, dove il blu del cielo di queste splendide giornate incontaminate, si specchia nella volgarità delle vetrate continue firmate Unicredit, Allianz, Generali. Erezioni (come tu sarcasticamente le definisci) formalmente mediocri, narcisiste, alcune persino errate dal punto di vista strutturale, successivamente “puntellate”. Ruderi dalla nascita. Chissà se il silenzio surreale di questi giorni, il vento e il canto degli uccelli tra i viali e gli edifici, In questi giorni ascoltiamo il canto degli uccelli, il vento tra gli edifici, le voci dei bambini dai cortili e dalle case vicine. Chissà che tutto questo non riesca a contagiarci e a viralizzarsi nella nostra coscienza e nella nostra consapevolezza, individuale e collettiva.
    15 aprile 2020 • 14:29Rispondi
    • Lodovico MeneghettiCaro Paolo, che piacere ritrovarsi. Perfetto "ruderi dalla nascita". Commovente la speranza di una nostra consapevolezza dopo l'esperienza di questi mesi. Con un abbraccio, Lodo
      16 aprile 2020 • 09:38
  2. Sergio BrennaGrande, Lodo: "Architettura della città, questo volevamo riconoscere, preservare e consolidare: gli isolati, le strade, le cortine architettoniche uniformate dall’altezza, le piazze, i giardini interni." Una straordinaria pagina di storia urbana di Milano che il potere pubblico nnon ha saputo né leggere né fare propria, tradita da un liberismo lassista rivelatosi disastrosamente insostenibile
    15 aprile 2020 • 19:09Rispondi
    • Lodovico MeneghettiParole generose, ma giuste, le tue. Purtroppo temo che non siamo in molti ad opporci con il pensiero e la scrittura all'andazzo del "liberismo lassista" milanese. Andiamo avanti; mi mancherà tempo, ho fiducia in voi di una generazione non di vecchi come la mia, tuttavia matura e combattiva.
      16 aprile 2020 • 09:47
  3. Pierfrancesco SacerdotiCaro Lodo, ho letto con molto interesse il tuo articolo. Condivido la tua analisi e vorrei poter credere al finale. Ma sono pessimista, temo sarà difficile liberarsi da questo capitalismo selvaggio...
    16 aprile 2020 • 19:29Rispondi
    • Lodovico MeneghettiSe il mio articolo è servito, in particolare, per muovere un pensiero poi una proposta culturale e concretamente sociale come la tua, mi sento appagato. Caro Leo, ti ringrazio quando affermi che la mia esperienza, da te seguita fin dai tempi del scuola, può accompagnarsi con altre, forse ora appartate, per ritrovare la "città policentrica" delle culture, una nuova "comunità di diritti universali". Per questo obiettivo dovranno lavorare i giovani. Quelli, tu fra essi, che hanno capito quale e come è il mondo attuale e non lo hanno accettato ciecamente; mentre troppi sono stati obbligati a sottoporvisi.
      20 aprile 2020 • 20:04
  4. LEO GUERRACaro Lodo, non posso che leggere con emozioni contrastanti questo tuo articolo, poiché riassuntivo del tuo pensiero - non da oggi - e al contempo testimonianza della tua personale battaglia, condotta 'dall'interno': del mestiere di architetto, di docente di urbanistica, di civili servant e di cittadino. Parlo di emozioni contrastanti perché da un lato, il tono delle tue parole mi rimanda il suono delle invettive civili che lanciavi dalla cattedra in direzione delle nostre ingenue convenzioni di giovani allievi (anni '90!) al Politecnico; dall'altro, è la rassegna del degrado sociale, politico e culturale di una nazione, emblematizzata nel tuo pezzo, a infondermi un brivido freddo e a incupire l'orizzonte di tutti noi. Voglio però essere ottimista - per il nostro futuro e per quello dei nostri figli - e immaginare una risposta luminosa al tuo finale, alla domanda "che fare?". Eccola: questo passaggio dalla città pensata come luogo della costruzione del tessuto sociale alla città come campo di realizzazione per appetiti speculativi (il famigerato intreccio fra rendita e profitto) dell'attualità, si è compiuto in essenziale parallelismo con l'avvento del marketing fra le discipline di pianificazione dell'economia. Questa metodologia della persuasione (K. Lorenz, "I persuasori occulti", 1954) ha poi coinvolto la politica, la società e perfino le relazioni interpersonali. Ne sono una testimonianza plastica i brani della nuova città: come altrimenti interpretare i grattacieli della ex-Fiera e delle ex-Varesine, se non come uno stucchevole show di super-oggetti il cui statuto fisico è il derivato di programmi di marketing-mix in grado di miscelare notorietà dell'archistar, forme 'fashion' e stilemi formali ottenuti da simulazioni e modelli di product design? Ebbene, volendo volgere in positivo questa deriva metodologica - da dialettica pubblica, consapevolezza progettuale, partecipazione - a marketing al servizio del project financing, si potrebbe immaginare che l'insieme di queste nuove pratiche e modalità di programmazione e di progettazione, siano piegate al servizio dell'identità per essere messe a disposizione della nostra storia e della nostra tradizione. In altre parole: se per risorgere sarà necessario 'saper vendere' il cosiddetto brand Milano, allora sarà bene specializzarsi nell'allestire al meglio il 'catalogo delle cose da vendere'. L'immaginario che è stato costruito negli ultimi 20anni attorno al design Milan-made, nel quadro più generale del cosiddetto Made in Italy ne è un esempio illuminante: ciò che il mondo ci invidia, e su cui il mercato investe, è l'immaginario di quel miracolo di esperienze, genialità e artigianalità intrecciate che ha visto la nostra città quale scenario e l'intelligenza imprenditoriale dei distretti circostanti come motore economico. Senza dimenticare il genio dei designer che questo fenomeno hanno incarnato, con l'abilità della loro matita. Ora, se ognuno di noi riuscirà a ricostruire, a proteggere, a inventariare e a diffondere - e collegare! - le singole esperienze professionali che rappresentano la nostra storia, in direzione di una sorta di città policentrica delle culture e delle identità singole, ecco che forse potrà compiersi una nuova immagine di città, propedeutica a una nuova idea di città. La tua esperienza, caro Lodo, è uno di questi capisaldi e merita di essere tramandata e raccordata a quelle dei tuoi 'compagni di strada'. Si tratta soltanto di rintracciare, confrontare, riconoscere e intercettare queste singole esperienze, per poi renderle visibili. Queste pratiche di ricerca, e di ricostruzione storico-identitaria - che oggi vengono identificate con lo 'storytelling' - rappresentano, io credo, una nuova via di appartenenza a una comunità e una strada possibile verso un progetto di futuro. Una comunità dell'informazione e della memoria, cui tutti possono contribuire. Una comunità nomade e indipendente, che non necessita di particolari sostegni pubblici per divenire e per essere. Una comunità dei diritti universali che fanno la nostra storia e preparano nuovi canali di ricerca. Lavoriamoci. Auguri a noi tutti.
    20 aprile 2020 • 14:49Rispondi
  5. Antonella ForlèCaro professore, che piacere leggere ancora le sue critiche come sempre taglienti e purtroppo vere. un caro abbraccio. SDF.
    8 luglio 2020 • 12:59Rispondi
    • Luca Beltrami GadolaGrazie.
      8 luglio 2020 • 17:28
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