9 aprile 2020

LA SANITÀ TRA REGIONI E STATO: DAL CONCORSO ALLA CONCORRENZA

Origini e travagli di una riforma ingiustamente dimenticata


La distruzione della sanità pubblica tra storia passata e cronache recenti. Lo sradicamento e la separazione dal territorio ha avuto e ancora di più ha oggi conseguenze devastanti, In sostanza è venuto a mancare il diritto costituzionale alla salute.

Foto di Nicolò Maraz (dettaglio)

Foto di Nicolò Maraz (dettaglio)

Presi alla sprovvista dall’inopinata pandemia viviamo giorno per giorno una condizione di incertezza e disorientamento. Un punto però pare acquisito alla coscienza collettiva: indietro non si torna, l’auspicata ripresa non sarà la pura restaurazione dello statu quo ante ma richiederà un nuovo inizio. Difficile prevederne i connotati; per ora se ne percepisce solo la base di partenza: il dissesto di un turbo-capitalismo egemone da quarant’anni e l’incongruenza del pensiero unico che l’ha sorretto ideologicamente.

Può allora tornare utile, non per ripercorrere il passato (la storia non si ripete) ma per immaginare un futuro diverso, richiamare l’altro ieri, cioè rievocare l’esperienza anteriore all’ultima belle époque come spunto per una ripartenza più sana e solida, scongiurando gli esiti tragici del secolo scorso.

La tutela della salute fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, così definita nel Titolo II° dalla Costituzione, può pertanto essere presa come paradigma di un nuovo modello sociale, nonché di una riorganizzazione politica e istituzionale. La legge di riforma sanitaria del 1978 andrebbe allora riletta nei suoi fondamentali, insieme alla critica per la incompleta attuazione e, peggio, il successivo smantellamento pezzo a pezzo.

L’approvazione della legge 833/78 fu per altro accelerata da un’emergenza sanitaria, non globale ma localizzata nella sola Brianza centrale, che tuttavia ebbe risonanza internazionale: la nube tossica che nel luglio 1976 diffuse nei dintorni di Seveso la diossina, una sostanza chimica prodottasi accidentalmente dall’incendio di un impianto industriale. Il sottoscritto ha avuto la ventura di svolgere all’epoca il ruolo di responsabile della commissione “sanità e sicurezza sociale” del PCI di Milano e provincia, allora comprendente la Brianza, e di seguire passo passo l’azione e la discussione divampata per fronteggiare la crisi imprevista.

Anche allora la scienza si divise: gli effetti della diossina erano sconosciuti, se non per qualche precedente riscontrato nella guerra in Vietnam. La discussione si estese presto alla politica perché, tra l’altro, il monitoraggio della popolazione contaminata poteva comportare il ricorso all’aborto, allora ammesso solo nella forma “terapeutica”. La battaglia politica conseguente avrebbe tuttavia portato all’approvazione della relativa legge (n.194 del 22 maggio 1978).

Altri due concetti si affacciarono con forza all’attenzione generale: quello di “prevenzione” e quello di “ambiente”. Il primo volto a superare l’approccio precedente di “medicina preventiva” (scolastica, del lavoro, ecc.) per giungere ad un modello di “prevenzione primaria”, ovvero controllo delle condizioni normali di salubrità e sicurezza degli ambienti di vita e di lavoro.

L’attenzione all’ambiente, sino ad allora sacrificato alle pure esigenze produttive, a cominciare dal controllo di emissioni gassose, scarichi industriali, smaltimento di rifiuti più o meno tossici, ecc. si risvegliò nelle coscienze di molti e, in quanto tema, divenne presto oggetto di rivendicazioni da parte delle forze sindacali e politiche progressiste. Inoltre la neonata cultura ambientalista ebbe una protagonista eccezionale: Laura Conti, medico e consigliere regionale comunista, che portò a Seveso, in un’affollata assemblea popolare, Barry Commoner, il padre del pensiero ecologista che aveva elaborato una preveggente tesi sugli effetti delle fonti energetiche non rinnovabili sul ciclo naturale.

Di seguito con la legge Basaglia sulla salute mentale (n.180 del 13 maggio 1978) si completò il mosaico che impose la riforma complessiva alla fine di quell’anno magico e tragico, denso di riforme avanzate frutto di quell’unità nazionale che accompagnò l’assassinio di Aldo Moro.

Il 23 dicembre nacque il Servizio Sanitario Nazionale, che superava i vecchi enti settoriali e corporativi integrando tutti i servizi di prevenzione-cura-riabilitazione, col concorso delle Regioni ma attribuendo la gestione, comprendente anche gli ospedali di base, alle Unità Sanitarie territoriali. Con due importanti implicazioni politico-istituzionali.

Primo: alle Regioni erano riservati compiti di programmazione e legislazione specifica nell’ambito della legge-quadro nazionale. Solo dopo la modifica costituzionale del 2001 avrebbero acquisito potere “concorrente” in materia, generando i noti equivoci e conflitti di competenza. Si passò così dal “concorso” alla “concorrenza” (stessa radice ma significati divergenti: partecipazione e contributo oppure emulazione e competizione).

Secondo: le funzioni gestionali furono affidate alle USL (Unità Sanitarie Locali) facenti capo ai “comuni singoli o associati”, non alle regioni che in seguito avrebbero invece accentrato fondi e poteri, per altro separando di nuovo gli ospedali dal territorio, sostituendo le USL con improbabili “aziende” condotte da manager arbitrariamente nominati.

Invece le USSL (anche socio-sanitarie) avrebbero potuto fornire il modello per nuovi Comuni di dimensioni ottimali, da 80-100.000 abitanti nelle zone più dense, a 30-40.000 in quelle meno dense. E in senso inverso realizzare un autentico decentramento delle grandi città, conferendo autonomia gestionale ai Municipi per l’amministrazione ordinaria e i servizi alla persona, riservando ad autentiche Città metropolitane le funzioni di larga scala riguardo al governo strategico del territorio, della mobilità e delle risorse ambientali.

E qui torniamo all’attualità. La Lombardia sì è distinta nello scomporre il modello originario: privatizzazioni, deregulation e talvolta pure corruzione. Ebbene proprio la Lombardia ha ospitato l’epicentro del contagio. Non interessano qui le polemiche contingenti: l’emergenza travolge decisioni e scelte che solo la “saggezza del poi” può giudicare. Importa invece riflettere su eventuali condizioni territoriali, economiche, ambientali pregresse e indagare le possibili connessioni con elementi di debolezza e fragilità riflesse anche sul piano sanitario.

La “prevenzione primaria” non sta solo nelle mani della medicina quanto in quelle dell’urbanistica, della sociologia e dell’economia, ovvero in ultima analisi di una politica chiamata, se sarà in grado, di dimostrarsi all’altezza di una sfida epocale.

Valentino Ballabio



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