23 marzo 2020

IL “BRAND” LOMBARDO E COVID-19

E se questa dura prova rialzasse alla fine il valore del “Brand Lombardia”?


PER COMINCIARE: Se Milano, con grandi sforzi di marketing, è ormai diventato un nome, un brand, di una forza simbolica non indifferente, non è così per la sua regione, la Lombardia. Che sta però dando segnali forti di unità e collaborazione in questo frangente drammatico, riguadagnandosi così, forse, il brand che non aveva mai avuto.

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Da un mese la parola Lombardia ha oscurato ogni altra espressione territoriale italiana. Sarà un imprevisto segnale per i cultori di “country brand” che non avevano più una risposta da dare a coloro – soprattutto amministratori regionali – che hanno da tempo immemore sofferto un po’ la grande popolarità del brand Milano, ma potremmo ugualmente dire del brand lago di Como e di altri.

Sofferto” rispetto a quello di una regione grande e popolosa come uno Stato, la più ricca d’Italia, ma i cui abitanti – che si identificano tutti nei comuni e nei grandi comuni addirittura nei quartieri – non si definiscono “lombardi”, non solo in patria ma nemmeno quando vanno all’estero. A differenza di sardi, siciliani, veneti, romagnoli, pugliesi, forse persino toscani quando sono davvero lontano da casa.

Si dirà naturalmente che la cosa è pagata a caro prezzo. Cioè in nome non di un successo popolare, di un anniversario storico, di una prodezza sportiva, ma a causa di una micidiale epidemia in cui i lombardi si avviano a contendere addirittura ai cinesi il primo posto in una affliggente classifica.

Il cinismo del marketing risponderebbe: “l’importante è che se ne parli”. Sì, ma a patto che la tremenda prova in corso non finisca per trasformare questa popolarità in un “marchio”. Come, per dire, la mafiosità ha finito per deformare il brand di una delle regioni più belle del mondo, la Sicilia, associando a questa dicitura quella del male assoluto. E la miglior Sicilia sa quanto sia duro e complesso il lungo cammino per la rigenerazione del significato simbolico del nome della loro straordinaria terra.

La Lombardia fondava le sue speranze competitive su due strade. La prima è quella di trovare la quadra “identitaria” tra le sue città diverse ma accomunabili nella rigenerazione della modernità economica post-industriale (dunque come un nuovo “patto”). La seconda quella di dimostrarsi in proprio all’altezza di una storia di tradizione – sobria, laboriosa, perseverante, paziente, misurata – effettivo comun denominatore di tutti i territori interni, da quelli alpini a quelli della “bassa”, da quelli campagnoli a quelli urbani, da quelli metropolitani a quelli borghigiani.

Ebbene la virtù manzoniana del brand Lombardia ha una narrativa sempre più confinata e poco appariscente. Non certo di sfondamento. Mentre invece il carattere industrial-finanziario dei forti brand urbani (Milano in testa) assicurano quel successo di memorizzazione moderna e di attrattività che ha premiato negli anni recenti il turismo, persino a Milano che non si è mai sognata per secoli di coltivare questa economia, oggi divenuta un pilastro del PIL.

A buoni conti una vera politica di orientamento strategico al tema non è mai stata tentata, così che negli ultimi venti anni il motore dell’accumulazione di immagine targata “Lombardia” è stato individuato soprattutto nel campo della salute, cioè nel primato della “eccellenza del sistema sanitario lombardo” (proprio quello che alla fine ha messo nei guai il suo inventore).

Che dire sugli eventi in corso? Essi – quando le montagne russe finiranno, anche se il “quando” per ora non è nettamente prevedibile – lasceranno probabilmente la percezione di una battaglia umana e sociale più potente del carattere omicida del virus. In più una battaglia che si appoggia a fattori di modernità: dalla forza d’urto dell’infrastruttura sanitaria, al coraggio e alla perizia del volontariato, dalla tenacia degli amministratori locali, all’umanità sapiente di medici e infermieri.

Il cambiamento della percezione di un brand territoriale è lento nel tempo e richiede ripetitività di vicende. Qui ovviamente non augurabile. E il successo della parola “Lombardia” non deve promuoversi “contro” quello delle sue città, Milano per prima. Si potrebbe così azzardare l’ipotesi che questa drammatica vicenda dell’anno 2020 – che ha riannodato storie di dolori antichi e, più in generale, storie di distruzioni e rigenerazioni che hanno connotato in diversa misura tutto il territorio regionale – ha una forte probabilità di restituire qualcosa tanto all’interno quanto all’esterno della regione.

Ai lombardi stessi (accomunati oggi dalle storie angoscianti che resteranno simboliche di tutta questa “guerra”, da Lodi a Pavia, da Bergamo a Brescia, ben inteso da Codogno a Milano) restituirà forse il sentimento di resilienza che tutti si augurano dicibile molto presto. Ma all’Italia e al mondo restituirà forse anche l’apprezzamento per la tenuta al tempo stesso valoriale e tecnologica, civile e democratica, etica e produttiva, in cui nessuna città, nessun borgo poteva fare da solo.

Un territorio ibridato da secoli nell’etica del lavoro, mescolato a migrazioni integrate, forte di una narrativa in cui la Lombardia può contrapporre persino a Milano l’essere rispetto all’avere, forse uscirà da queste giornate dolorose conquistandosi come un diritto la popolarità e la dicibilità del suo brand.

Stefano Rolando



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