4 marzo 2020

CHE FINE HA FATTO IL BEL CANTO?

Una critica alla critica


Santandrea2Approfittando della “pausa di riflessione” che le circostanze di queste settimane impongono al critico militante titolare di questa rubrica, vorrei aggiungere qualche commento alle stimolanti riflessioni di Luca Silipo qui pubblicate tre settimane fa.

L’amaro commento di Maria Callas al commosso omaggio che la salutò a conclusione del Farewell Concert di Londra nel novembre 1973 (Hanno applaudito ciò che ascoltarono il tempo che fu, non stasera) che Silipo cita nel suo intervento, potrebbe in verità applicarsi ben oltre il declino della sua straordinaria vocalità, al tipo di rapporto che ai nostri giorni corre fra la tradizione lirica e il popolo, circa inclito, che riempie in teatri di tutto il mondo.

Perché dunque le cose della lirica sono così tanto diverse oggi dal lunghissimo periodo che va dagli albori sette-ottocenteschi del melodramma sino ai “mitici” anni ’40-50, allorché, ricorda Silipo, le performances erano circonfuse da un’“aura” che iniziava con l’attesa spasmodica della prima e si estendeva ben oltre i profluvi di applausi (ovvero gli altrettanto appassionati “buuu”) che ne concludevano la rappresentazione?

La frase della Callas contiene, a ben vedere, una riflessione profonda sull’opera lirica, giacché essa è consustanzialmente – per sua storica forma e contenuto – una rappresentazione del “tempo che fu”: una vicenda storica che, durata più di due secoli, ebbe una drammatica conclusione proprio negli anni della sua breve carriera.

All’inizio di quegli anni, il “melodramma renaissance” si rivolge a una società nella quale ancora i “valori” ottocenteschi e primo-novecenteschi sono ben presenti: l’indimenticata Violetta di Callas – Visconti trionfa alla Scala nel 1956, solo due anni prima della travagliata approvazione della Legge Merlin, sicché la borghese componente maschile in età matura del pubblico osannante della Scala si sarà sicuramente immedesimata negli scrupoli del Visconte e nel volgare impeto d’ira del “questa donna pagata io l’ho” con ben altro senso di partecipazione di quanto non possa avvenire nei palcoscenici di oggi, quando assistiamo increduli al trionfo di quei pregiudizi e parteggiamo senza esitazioni per il moto di liberazione e la conversione della traviata; allo stesso modo in cui quella società compiangeva partecipe la morte di Mimì per via di quel mal sottile che solo la diffusione della penicillina nei tardi anni ’50 rese definitivamente inoffensivo.

In sintesi: solo con l’avvento delle grandi rivoluzioni culturali e sociali della prima metà degli anni ’60 le trame, i personaggi, i drammi dell’opera lirica divengono definitivamente “inattuali”; conseguentemente, le figure chiave di quel mondo perdono lo status di interpreti realistici di metafore in modo di melodramma e vanno ad aggiungersi alle folte schiere degli interpreti “del tempo che fu”, dai grandi personaggi del teatro greco a quelli sei – settecenteschi dell’Europa borghese.

A cavallo fra gli anni ’50 e ’60 si crea, come sappiamo, una profonda cesura socio-culturale che investe tutti gli aspetti della società occidentale: a livello musicale, la “musica leggera” assume il ruolo, per tutte le età e per tutte le classi sociali, della popolare musica lirica e concertistica, cosicché nobili, grandi e piccoli borghesi cominciamo a non avere più in mente o fischiettare la cavatina del Barbiere o l’aria del Duca di Mantova anche perché le donne cominciano ad essere un po’ meno mute d’accento e di pensier di prima … .

E, scavando ancora più in profondità, come trascurare l’effetto di “banalizzazione” della diffusione delle tecniche di riproduzione, prima discografiche, oggi informatiche? Mentre sino ad allora, la diffusione dei capolavori si affidava al passa-parola o alle poche migliaia di copie degli spartiti della Ricordi, oggi su You Tube chiunque di noi può trovare riprodotta in infinite versioni tutta la biblioteca interpretativa di ogni opera o esecuzione concertistica degli ultimi 50-60 anni.

Quindi, cosa può essere rimasto, nella percezione dei più, di quella maraviglia che contraddistingue ogni tipo e manifestazione dell’opera d’arte ?

Direttori, cantanti, metteurs-en-scene del teatro lirico si rivolgono oggi a un pubblico che è la percentuale infinitesimale dei loro pur non numerosissimi fans: sono, essi, una “èlite-della-èlite” incapace, per via della loro insignificante forza d’urto negli accadimenti storici, di suscitare notizia e passione. E, sia detto per inciso, quanto inefficaci e talvolta insulsi sono quei tentativi di “attualizzazione” e di ricontestualizzazione del repertorio operistico in realtà “altre”, che, quando spinti all’eccesso, hanno addirittura l’effetto cacofonico di sostituirsi improvvidamente al piacere dell’ascolto musicale !

A cercare uno spartiacque puntuale del passaggio dalla centralità della drammaturgia lirica alla sua periferizzazione, io credo potremmo trovarlo nelle vicende contemporanee di Karajan nella direzione d’orchestra e di Pavarotti nel canto: vicende alle quali guarderei, all’inverso di come normalmente si fa, non come l’idea geniale e l’esperienza di successo del trasferimento della passione musicale dalle dimensioni elitarie della musica colta alla cultura di massa ma, al contrario, come la cessione definitiva del “testimone” dai privilegi di una percezione privilegiata del mondo e del pensiero a un semplicistico e “gastrico” interesse per il bello e l’appassionante.

Non è vero, naturalmente, che in questo nuovo mondo non ci siano più dive e divi: solo che non li troveremo calcare le scene del Covent Garden o del Metropolitan ma esibirsi alle isterie di massa che riempiono gli spettacoli dei Michael Jackson o dei Vasco Rossi. La partecipazione appassionata – quella che Silipo chiama “drammaturgia” – non è quindi scomparsa: ha soltanto cambiato luoghi e, in parte, repertorio, giacché le esibizioni di Lang Lang nelle piazze del mondo o la stagione dell’Arena veronese entusiasmano i rispettivi pubblici con esecuzioni di un repertorio non totalmente dissimile da quello cui accorrono gli happy-few delle prime scaligere.

Siamo, caro Silipo, nella società di massa e nell’epoca della “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte” ben più di quanto non abbia immaginato Walter Benjamin già nel 1936. E perciò, occorre rassegnarsi: chi sa riconoscere, entusiasmarsi e discettare sul mi-sopracuto in diminuendo della Sonnambula callasiana è destinato ad aggirarsi sempre più “pastore errante” nelle immense praterie della rete oppure, a rassegnarsi, se può, novello Baldini, a rincorrere le esecuzioni che “valent-le-voyage” nelle residue grandi platee della lirica.

Infine, della Callas: ella non è stata solo l’ultima delle grandi magie divistiche, vocali e interpretative, dell’ultima stagione del Melodramma, ma la precorritrice di una nuova femminilità, androgina e non più sottomessa. La sua vita, la sua presenza scenica, la sua vocalità hanno precorso i tempi, arrivando al di là del confine del suo. Di lei va ricordata, infatti, non solo e non tanto la maestria irripetibile di interprete delle Violette, delle Carmen, delle Mimì o della Tosca: il suo “messaggio nella bottiglia” del futuro è infatti stato quello di una donna-attrice-cantante che supera il modello di femminilità fin-de-siecle, lacrimevole e sottomessa: ma quello di Norma, leader del popolo schiavo dei Galli che sconfigge ed umilia i virili dominatori romani e che al loro capo si rivolge trionfante: in mia mano alfin tu sei con un grido barbaro

E violento che testimonia dalla simbiosi assoluta fra personaggio ed interprete: un brivido irrefrenabile che ancor ci coglie, ascoltandolo nella versione Serafin-Scala del 1954.

Adriano Santandrea



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