17 dicembre 2019
MILANO CITTÀ UNIVERSITARIA
Come se le Alpi fossero un riparo
Milano ha avuto la sua prima università solo nella seconda metà dell’800. Oggi è uno dei maggiori poli universitari d’Europa e probabilmente il primo in Italia. Sono oltre 190.000 gli studenti iscritti alle facoltà residenti in Milano: un numero di studenti universitari di poco inferiore a quelli di Parigi. Ignorando gli studenti fuori corso, sono circa 130.000 gli studenti in corso iscritti alle facoltà milanesi. Oltre il 9 per cento in rapporto alla popolazione della città. Percentuale che è superata in Italia solo dalle città universitarie storiche (Bologna, Padova, Pavia) ma che non ha l’eguale nelle grandi città europee. Il numero di studenti iscritti alle università di Roma è superiore a Milano, pari a 220.000. Se però si ignorano gli studenti iscritti alle università telematiche di Roma (ben 30.000) e si tiene conto della percentuale più elevata di studenti universitari fuori corso nella università romane, la popolazione di studenti in corso a Roma è pari a circa 110.000, 20.000 in meno rispetto a Milano.
Le università milanesi godono di buona, quasi ottima, stampa. Almeno in apparenza, godono anche di buoni rapporti più o meno con tutte le forze politiche. È raro sentire o leggere critiche sulle università di Milano. Poche anche le lamentele degli studenti, fatta eccezione per il costo dell’alloggio per gli studenti fuori sede che abitano a Milano. Tutto bene o quasi, sembrerebbe. Ma solo se lo sguardo non va oltre le Alpi. E questa miopia è forse uno degli aspetti che più preoccupa.
1. Un benchmarking quasi drammatico
Un recente articolo di Andrea Gavosto e Stefano Molina titola “Italia bocciata all’università”. I due ricercatori della Fondazione Agnelli riportano i dati sconsolanti che emergono dall’ultimo rapporto OCSE Education at a Glance. Val la pena riprendere due brani dal loro articolo: “I dati che descrivono la scena internazionale confermano due “anomalie” italiane. La prima riguarda l’esiguità delle risorse investite nell’università dal nostro paese: nel 2016 vi abbiamo destinato solo lo 0,89 per cento del nostro Pil, decisamente meno della media Ocse (1,48 per cento). Da notare che dal 2010 la quota è addirittura diminuita (era lo 0,99 per cento), con una contrazione che riguarda esclusivamente le risorse pubbliche, scese da 0,76 a 0,57 per cento, mentre è cresciuto lo sforzo degli attori privati (famiglie), salito da 0,23 a 0,32 per cento”.
E ancora: “Considerata tanta parsimonia, non sorprende che l’Italia sia oggi tra i Paesi con la popolazione adulta meno istruita: tra i 25-34enni solo il 28 per cento è in possesso di un titolo terziario, mentre la media Ocse è pari al 47 per cento. Le quote del 2011, rispettivamente del 21 e 39 per cento, testimoniano la faticosa rincorsa italiana”.
Uno studio ben documentato del 2005 a firma di Gagliarducci, Andrea Ichino, Peri e Perotti metteva in evidenza già allora quello che i quattro ricercatori chiamavano lo “Splendido isolamento dell’università italiana”. Secondo quei ricercatori, l’impostazione autarchica delle nostre università non permette di importare risorse dall’estero, e spinge per contro a cedere in continuazione cervelli all’estero. Questo non valeva ovviamente solo per l’università. Tra i Paesi dell’Unione Europea eravamo già allora quello con meno stranieri occupati in ricerca e sviluppo (l’1% circa, contro il 4% della Germania, Gran Bretagna e Francia e il 10% degli Stati Uniti). Ed i laureati esteri che venivano in Italia erano pari a circa un decimo dei laureati italiani che andavano all’estero.
Per questo è sembrato utile fare una analisi di benchmarking internazionale, aggiornata al 2018/19. E verificare anche come la città di Milano si classifica tra le grandi città universitarie d’Europa. Il benchmarking fa emergere un posizionamento delle università italiane con caratteristiche quasi drammatiche. Anche le università milanesi si attestano (con poche eccezioni) su un livello medio-basso.
Esistono molte fonti che stilano ogni anno una graduatoria mondiale delle università nel mondo. Abbiamo scelto le tre più accreditate. Sono le stesse dalle quali parecchie università italiane, nelle loro presentazioni online, traggono le poche righe o le singole valutazioni a loro più favorevoli, tacendo però il posizionamento complessivo delle stesse università nella graduatoria. Le tre fonti sono:
La cosa migliore è dare uno sguardo di insieme a tutte e tre le graduatorie. Le caratteristiche di fondo che emergono, per quanto riguarda le università milanesi ed italiane, nella sostanza coincidono in tutte e tre le graduatorie.
Le università milanesi si posizionano nel modo seguente nelle tre classifiche:
Facendo una media delle tre graduatorie, la migliore delle università milanesi, cioè il Politecnico, si colloca all’incirca in 250ª posizione a livello mondiale. Non proprio una cosa di cui andar fieri. Anche se per ogni università prendiamo in considerazione solo il miglior piazzamento tra le tre graduatorie, le principali università milanesi escono assai malconce da questo benchmarking.
2. Le scuole di business
La Bocconi è l’unica università milanese ed italiana che da alcuni anni si piazza nella parte alta delle graduatorie internazionali. Nella graduatoria delle Scuole di Business & Management redatta da QS, Bocconi si classifica come l’8ª miglior università al mondo, e la 4ª in Europa (preceduta da INSEAD di Parigi, London Business School, Cambridge University), a pari merito con la London School of Economics e prima della Oxford University. Le altre scuole di business italiane prima della 250ª posizione sono:
Per quanto riguarda invece il Master in Business Administration, secondo la classifica del Financial Times, quest’anno Bocconi fa un gran balzo in avanti e dalla 6ª posizione passa alla 3ª in Europa e presumibilmente (visto il posizionamento della scuola europea in 3ª posizione nel 2018) circa 10ª al mondo. Tra gli elementi che hanno portato al più avanzato piazzamento della Bocconi è il fatto che il 39% dei docenti per il Master in Business Administration sono donne (percentuale tra le più alte al mondo) e il 39% sono di provenienza internazionale (percentuale altissima per l’Italia ma ancora bassa rispetto alle altre business schools di fascia alta).
Sempre secondo la classifica FT, il MIP del Politecnico si colloca in 45ª posizione, mentre la Luiss si piazza in fondo alla graduatoria (92ª tra le 95 scuole di business prese in esame).
Bocconi è quindi l’unica vera star dell’appannato firmamento universitario italiano. Bocconi a parte, per quanto riguarda la Business Education, tuttavia, l’Italia ha un’offerta universitaria assai povera. Stati Uniti e Gran Bretagna sono i Paesi che occupano in graduatoria le posizioni di maggior prestigio. Ma anche Francia e Spagna hanno una offerta di Scuole di Business molto più articolata e ricca rispetto a quella italiana.
3. Le scuole di moda, architettura e design
Milano è una delle quattro capitali della moda nel mondo. Difficile stilare una graduatoria tra le quattro città: ma probabilmente Milano viene seconda per importanza dopo Parigi e precede Londra e New York. Eppure Milano ha un’offerta di formazione assai debole per quanto riguarda il personale “pregiato” per le aziende di moda. Londra e New York dominano in maniera netta la fascia alta della formazione anche in questo settore. Non è difficile pensare che questo porrà un’inevitabile ipoteca sulla evoluzione futura del settore stesso.
Non esistono per le scuole di moda graduatorie altrettanto autorevoli quanto quelle che riguardano le università in generale o le business schools. Le graduatorie di maggior riferimento sono redatte da due riviste, CEOWorld Magazine e Business of Fashion. La seconda è ferma al 2017, è articolata per sottograduatorie e non permette una valutazione di insieme. Per questo è parso utile riportare solo la graduatoria mondiale delle scuole di moda riportata da CEOWorld Magazine.
Di seguito sono elencate le prime 10 scuole di moda al mondo secondo questa graduatoria. Solo in decima posizione troviamo la prima scuola italiana:
10 Istituto Marangoni, Milano
Data l’importanza del business della moda nel nostro Paese, l’Italia non é sovrarappresentata nemmeno numericamente tra le scuole di alta formazione per la moda. Su 109 scuole nel mondo l’Italia ne conta solo sette: oltre all’Istituto Marangoni, c’è Polimoda di Firenze (12ª posizione in graduatoria), l’Istituto Europeo del Design di Milano (42ª), Koefia Academy di Roma (50ª), Accademia Costume e Moda di Roma (53ª), Nuova Accademia delle Belle Arti di Milano (54ª), Università IUAV di Venezia (76ª), Politecnico di Milano (109ª).
A Milano l’alta formazione per la Moda è affidata sostanzialmente a due realtà, entrambe abilitate al rilascio di certificati AFAM, che hanno valore legale equiparato ai titoli universitari:
Ciò che Milano ha ancora oggi in più rispetto a Londra e New York è il network di scuole di formazione di professionale. Non tutte eccelse. Ma alcune di qualità molto elevata. Tra queste una menzione particolare merita l’Istituto Secoli. È una scuola professionale nata nel 1934 e che fa formazione molto apprezzata soprattutto nella modellistica per moda. A conferma della sua qualità, la scuola è frequentata per il 50% da studenti stranieri (provenienti soprattutto da Paesi asiatici). Nel 2016 la scuola ha aperto una sede a Guangzhou. Il costo del corso triennale presso l’Istituto è di 26.000 euro. Non lontano dal costo di alcune delle migliori scuole di moda di livello “alto”.
Vi sono infine due aree di eccellenza del Politecnico di Milano che occorre ricordare. La prima e più rilevante è la Scuola di Architettura. La facoltà del Politecnico viene al 9º posto nella classifica QS delle facoltà di architettura nel mondo. È preceduta nell’ordine da MIT, University College di Londra, l’olandese Delft University of Technology, il Politecnico di Zurigo, l’Università di California a Berkeley, Harvard University, Manchester School of Architecture, Cambridge University. Il posizionamento delle altre scuole italiane di architettura è il seguente: Politecnico di Torino in 41ª posizione, La Sapienza di Roma, l’Università di Roma 3 e Università di Bologna nella fascia tra 101ª e 150ª posizione, Federico II di Napoli e l’Università IUAV di Venezia nella fascia tra 151º e 200° posto.
Una specifica classifica internazionale sempre ad opera di QS/Elsevier prende in considerazione le prime 100 scuole di design a livello mondiale. Tra queste compare solo una università italiana, cioè la facoltà di design del Politecnico di Milano in 11ª posizione. Si tratta di un ottimo risultato per una facoltà nata solo nell’anno 2000. La facoltà di Design del Politecnico è preceduta nell’ordine da: Royal College of Art di Londra, Parsons School of Design (New York), Rhode Island School of Design (Providence), MIT (Boston), Pratt Institute (New York), School of Art Institute (Chicago), California Institute of Arts (Los Angeles), University of the Arts (Londra), Art Center College of Design (Pasadena), The Glasgow School of Art (Glasgow). Le scuole di eccellenza per il design sono quindi oggi quasi esclusivamente in mani americane e inglesi. Con l’eccezione della Glasgow School of Art e del Politecnico di Milano, sono tutte scuole private con un costo assai elevato. Parecchie di queste scuole sono le stesse già viste ai primi posti nella classifica delle scuole di moda. Moda e Design in molte scuole all’estero stanno infatti sotto lo stesso tetto. Non così purtroppo in Italia. L’Istituto Europeo del Design è l’unico istituto italiano che si occupa sia di moda che di design. Mentre tuttavia compare in una posizione di medio livello tra le graduatorie delle scuole di moda, esso non compare affatto nelle graduatorie delle scuole di design. Lo stesso Politecnico di Milano, come si è già visto, è collocato addirittura in 109ª posizione per quanto riguarda la formazione riferita al settore della moda.
L’Accademia di Brera, infine. Essa pure si occupa in modo marginale di design. Ma non viene presa in considerazione da nessuna graduatoria. L’Accademia è soprattutto una scuola d’arte, forse ferma ad una interpretazione molto tradizionale del proprio ruolo. In questa “nicchia” essa ha tuttavia un suo valore specifico che non è colto dalle graduatorie internazionali. L’elevato numero di studenti stranieri che la frequentano fa da supporto a questa valutazione.
4. Le migliori città universitarie
Una apposita classifica di QS compila una graduatoria delle migliori città universitarie. La graduatoria si basa su quattro fattori: tre oggettivi (facilità di trovare lavoro, costo della vita nella città, fattori di attrattività della città) e uno soggettivo, cioè il livello di gradimento per la città espresso direttamente dagli studenti.
In questa graduatoria Milano si posiziona male e sta scivolando verso il basso. Era al 33º posto in graduatoria tra le città universitarie al mondo nel 2016, è scesa al 36º nel 2017 ed è al 40º nel 2018. Il 40° posto è la sintesi di 4 punteggi. Milano si posiziona in un’ottima 15ª posizione per la “facilità di trovare un posto di lavoro”, al 35º posto per quanto riguarda il giudizio espresso dagli studenti, al 42º posto per il livello di attrattività della città, ma al 91º posto per quanto riguarda il costo della vita. Milano per uno studente universitario è meno costosa di Londra, Amsterdam, Stoccolma e Dublino, ma più costosa di Barcellona e di Parigi, e molto più costosa di Monaco e Berlino,
Per quanto riguarda la sola Europa sempre nel 2018 Milano si colloca in 17ª posizione, preceduta nell’ordine da: Londra (in prima posizione nonostante sia la città più costosa per gli studenti), Monaco, Berlino, Parigi, Zurigo, Vienna, Edinburgo, Barcellona, Amsterdam, Madrid, Manchester, Mosca, Praga, Dublino, Stoccolma, Glasgow. Tutte le graduatorie, come è inevitabile, vanno prese cum grano salis. Questa forse in particolare. Che Milano come città universitaria si posizioni alle spalle di Glasgow e Mosca sembra un po’ difficile da condividere. Ma il fatto che una città come Monaco di Baviera, per tanti versi non dissimile da Milano, si collochi in Europa in seconda posizione come miglior città universitaria (Milano al 17º posto, come si è visto) fa riflettere. Ancor più perchè Monaco si posiziona in prima posizione al mondo nell’indice di gradimento espresso direttamente dagli studenti.
Milano per ora è quindi una grande città universitaria nel numero delle università e degli studenti ad esse iscritti. La città e le stesse università hanno tuttavia fatto finora poco per accogliere in modo decente, se non caloroso, lo studente che viene da fuori Milano e ancor meno lo studente che viene da fuori Italia.
5. Pochi studenti di altri Paesi nella università milanesi
Esiste nel mondo un flusso elevato (e crescente) di studenti che vogliono frequentare università migliori rispetto a quelle disponibili nei loro Paesi. Non poche università (negli Stati Uniti, nel Canada, nel Regno Unito e in Australia soprattutto) sfruttano questo desiderio per autofinanziarsi in modo alquanto sostenuto: il costo di ammissione all’università per lo studente straniero in quei Paesi può essere anche un multiplo del costo sopportato dallo studente residente nel Paese. Nell’Europa continentale questo di regola non avviene.
Qui sotto è la percentuale di studenti stranieri che frequentano le prime dieci università (graduatoria THE) dei più rilevanti Paesi europei:
Con l’eccezione della Spagna e in parte per la Francia (la prima è meta di parecchi studenti dell’America Latina, la seconda è meta di molti studenti dei Paesi ex-francofoni), la graduatoria della presenza degli studenti stranieri riflette sostanzialmente la graduatoria della bontà in graduatoria del sistema universitario di ogni Paese, come visto al paragrafo 2. Come l’Italia veniva in coda nella graduatoria media dei suoi Atenei, così l’Italia è il fanalino di coda nella graduatoria di presenza di studenti stranieri nelle proprie università.
A Milano la percentuale di studenti stranieri nei principali Istituti universitari è pari all’8%, così articolato tra le 6 università:
Anche per gli Atenei milanesi la percentuale di presenza di studenti stranieri è sostanzialmente allineata al posizionamento in graduatoria dei singoli istituti che abbiamo visto al paragrafo 2. Il network internazionale della Chiesa spiega probabilmente la maggior percentuale degli studenti stranieri in Università Cattolica (la più grande del mondo) rispetto alla Statale ed alla Bicocca). In nessuna università milanese, comunque, si supera la percentuale di presenza di studenti stranieri che si registra nelle prime 10 università degli altri Paesi europei esaminati (Spagna esclusa).
La presenza di studenti stranieri è molto più elevata presso l’Accademia di Brera (33%) ed è del 22% presso l’Istituto Europeo del Design. Per l’Istituto Marangoni tale percentuale è meno significativa perché l’Istituto ha proprie sedi in parecchi Paesi esteri.
6. Impatto sulla città
Quale è il flusso di studenti e di personale docente e non docente che ogni giorno raggiunge le sette maggiori sedi universitarie milanesi? In assenza di rilevazioni mirate abbiamo ipotizzato che questo flusso sia pari al numero di studenti “in corso” presso le sedi universitarie, cui si aggiunge il personale docente e non docente. Non prendendo in considerazione gli studenti iscritti nelle sedi distaccate di Università Milanesi a Piacenza, Cremona, Lodi, Mantova, Lecco e Brescia, si tratta in complesso di 143.000 persone, di cui 130.000 (di fatto 129.600) studenti e 13.000 (di fatto 13.300) personale docente e non docente.
Circa il flusso giornaliere ipotizzato si può obiettare che molti studenti in corso non frequentano tutti i giorni. Ma d’altra parte i circa 60.000 studenti fuori corso frequentano pure saltuariamente, e con maggiore assiduità nei primi due anni di fuori corso. Abbiamo sostanzialmente ipotizzato che le frequenze degli studenti fuori corso compensino i “buchi” nelle frequenze giornaliere degli studenti in corso. Ovviamente, nel corso dell’anno vi sono un paio di mesi d’estate, un intervallo di circa 15 giorni a ridosso di Natale e altri periodi più brevi in cui il flusso è decisamente più basso.
È stato possibile attribuire alle singole zone della città solo 139.000 persone. Per circa 4.000 studenti (in prevalenza della Statale) non siamo riusciti a documentare la sede di frequenza. Li abbiamo per questo eliminati dalla distribuzione dei flussi tra le varie sedi universitarie in città.
Questa è la ripartizione, con un buon grado di approssimazione, del flusso di 139.000 persone tra le varie sedi universitarie:
Se si ignora il piccolo flusso di universitari al San Raffaele, la popolazione universitaria di Milano si concentra quindi per quasi un terzo su due sedi prospicenti la cerchia dei Navigli, ancora per quasi un terzo a Città Studi, nel Nord-Est della Città tra la circonvallazione esterna e la cerchia ferroviaria, per un quarto in due sedi nel nord della Città (Bovisa e Bicocca) e per il 15 per cento nelle due sedi a Sud/Sud-Est della Città (Bocconi e IULM).
7. Alla città conviene “sposare” l’Università
Bocconi a parte, Milano non ha istituti universitari di prima fila. Questo è un handicap grave per la città. Non perché sia necessario fare il verso alle università di altri Paesi, o perché faccia “bello” avere in casa delle buone università. Ma perché quasi solo l’università può formare e sviluppare in maniera anche eccelsa i suoi studenti, e perché una buona università è anche un importante motore primo di sviluppo.
Le attuali università di Milano sono in grado di diventare radicalmente migliori? Non è facile rispondere. Per farlo occorrono grande capacità di guardar lontano, gente un po’ visionaria e parecchie risorse. In prima battuta si sarebbe portati ad un certo pessimismo. Eppure sono tutte cose che esistono nel DNA di Milano. Milano oggi è divenuta un grande polo universitario, pur con le tante pecche che sono state evidenziate. Un secolo e mezzo fa Milano non aveva università. Può essere interessante ricordare lo spirito pionieristico con il quale, nella piccola e povera Milano della fine ‘800 e dell’inizio del ‘900, sono state fondate le quattro più importanti università milanesi.
Due annotazioni su questo periodo fondativo dell’Università milanese. La prima riguarda i “promotori” della nascita delle maggiori università milanesi. Mangiagalli era un radicale (nell’accezione del termine all’inizio del secolo scorso), e fu a capo di una giunta di destra nel primo dopoguerra a Milano. Padre Gemelli ed i suoi collaboratori erano cattolici fino al midollo. Ferdinando Bocconi era uno schietto imprenditore. Prospero Moisè Loria era ebreo e massone. Mylius un imprenditore tedesco di matrice illuminista. Persone di estrazione diversissima ma che credevano tutte in modo eccelso nel ruolo essenziale che l’università e la cultura doveva svolgere a Milano.
La seconda annotazione sta nel fatto che più e più volte le istituzioni locali, in primis la Camera di Commercio e il Comune di Milano, dettero un contributo determinante per il decollo di quelle istituzioni.
Il percorso da fare per traghettare le tre maggiori importanti università di Milano (Politecnico, Statale, Cattolica) dall’attuale fisionomia di “università decenti” all’area delle “università di prestigio” è un percorso lungo, e che richiede tempo, risorse, organizzazione e pazienza. La normativa che presiede alla vita universitaria (attribuzione di risorse, selezione dei docenti, valore legale del titolo di studio ecc.) è un fardello micidialmente negativo e la convenzione politica non permette di pensare ad un suo rapido superamento. Ma non è un percorso impossibile. Ci sono già riusciti non solo la Bocconi (avvantaggiata dall’essere università privata) ma anche alcune facoltà del Politecnico (che non hanno quel vantaggio).
Cosa deve fare la città? Con una espressione forte, Milano deve “sposare” l’università. Per prima cosa deve diventare una città in cui studenti e professori si “sentono a casa”. Oggi non purtroppo non è così. Occorre imparare con un po’ di umiltà cosa han fatto e fanno città come Monaco, Barcellona, Vienna o Manchester a diventare città universitarie più gradite rispetto a Milano. In più occorre che la città sappia utilizzare il successo della sua brand per dare prestigio, risorse e spazio ai non pochi focolai di innovazione che esistono dentro le università e dentro altre strutture simil-universitarie. Manchester, grande la metà di Milano è forse l’esempio più interessante. Pezzi importanti del centro di quella città saranno completamente rivitalizzati da quasi 2 miliardi di euro di investimenti che Manchester University è riuscita a reperire, in parte addirittura sul mercato privato dei capitali. Tutto può avvenire anche a Milano se la città si convince sul serio a “sposare” le sue università. Spero non sia un’illusione pensare che probabilmente lo farà: anche perché senza alcune università di primo livello l’attuale “rinascita” di Milano ha il fiato corto.
Giancarlo Lizzeri
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