17 dicembre 2019

RIGENERAZIONE URBANA UN TEMA DELICATO

La Regione rema contro gli obbiettivi del Comune


Quello della rigenerazione urbana sembra essere un obiettivo difficile da raggiungere se tra Regione e Comune non si chiariscano le rispettive posizioni. La materia urbanistica è ingestibile se vi è contrasto tra due livelli istituzionali.

righini

Regione Lombardia ha da poco approvato una legge per favorire processi di rigenerazione urbana e territoriale i cui contenuti, come già era avvenuto con la legge di contrasto al consumo di suolo (approvata nel 2014 ma ad oggi non ancora in vigore per i Comuni!), lasciano spazi applicativi, anche temporali, molto ampi e le cui modalità non sempre appaiono coerenti con il titolo della norma.

La legge propone un’ampia definizione dei concetti di rigenerazione, urbana e territoriale, che tengono insieme dimensioni edilizie, di sicurezza, ambientali, infrastrutturali e sociali che richiederebbero nuovi strumenti amministrativi e nuovi approcci culturali oltreché tecnici. Tutte cose su cui questa norma, che si propone in modo ambizioso di favorire lo sviluppo sostenibile, appare troppo timida.

Entrando nel merito dei contenuti, la legge n. 18/2019 introduce diverse tipologie di intervento, che possono essere raggruppate in due categorie: ambiti di rigenerazione urbana/territoriale e interventi sul patrimonio edilizio esistente e dismesso (anche rurale).

Se per la prima tipologia – ambiti di rigenerazione urbana/territoriale – viene richiesto uno sforzo ai Comuni per individuare aree su cui intervenire, al fine di riscriverne l’assetto urbanistico anche in termini di rapporto tra spazio costruito e spazio aperto e tra città pubblica e città privata, rimanendo comunque all’interno delle linee di indirizzo del Piano di Governo del Territorio, la seconda categoria – interventi sul patrimonio edilizio esistente e dismesso – si caratterizza per il regime derogatorio rispetto al piano urbanistico comunale, in termini di capacità edificatoria, di altezze, di caratteristiche morfotipologiche e di funzioni. Il tutto con importanti tagli sia sulle dotazioni di aree standard che sugli oneri di urbanizzazione dovuti (meno 50% con facoltà per ogni Comune di aumentare la riduzione).

A destare il primo dubbio è il ricorso a due leve – bonus volumetrici e sconto sugli oneri di urbanizzazione – che negli ultimi anni hanno dimostrato la loro fragilità. Continuare a ragionare in termini di incentivi volumetrici (fino al 25% in alcuni casi) a fronte di un mercato immobiliare che ha perso la dinamicità pre-crisi (dinamicità che aveva creato uno stock immobiliare e di diritti edificatori che molti operatori si trascinano ancora con fatica), con l’eccezione più unica che rara di Milano città, non sembra essere una grande innovazione. Inoltre, con bilanci comunali in perenne sofferenza, la riduzione degli oneri di urbanizzazione andrà a gravare ancora una volta sui Sindaci, che dovranno garantire gli stessi servizi ma, tanto per cambiare, con meno risorse.

Il secondo dubbio è la scala dell’intervento. Se si vuole ragionare sul concetto di sostenibilità, e quindi di uso del suolo, di prestazioni ambientali, di mobilità, di efficienza energetica e di economia circolare, la dimensione minima (in alcuni casi anch’essa insufficiente) è quella urbana per elaborare coerenti e correlate politiche capaci di generare una città più sostenibile. Al contrario, se l’aumento del 20% della capacità edificatoria e il cambio di destinazione d’uso è circoscritto a un singolo edificio, senza che sia messo in relazione con il contesto urbano nel quale si colloca e con la possibilità di derogare le regole del piano urbanistico, si sta affrontando solo ed esclusivamente la dimensione edilizia della trasformazione (non scomoderei neppure il concetto di rigenerazione) della città esistente.

E infine una provocazione: ma siamo davvero convinti che tutto il patrimonio edilizio esistente, attivo e dismesso, debba essere recuperato? Viviamo in territori cresciuti in una fase storica in cui si pensava che l’espansione, anche edilizia, potesse essere infinita, e che le risorse territoriali non si sarebbero mai esaurite. Negli ultimi anni abbiamo dovuto prendere atto che non è così. Gli spazi della produzione si sono ridotti o sono andati altrove, la pratica del telelavoro ha, e avrà, ricadute anche sulle dotazioni di uffici di molti headquarters, le esigenze dell’abitare sono cambiate. Inoltre il processo di cambiamento climatico avrebbe già dovuto far comprendere, sia ai tecnici che ai politici, che il governo del territorio non è fatto di solo edilizia ma anche di servizi ecosistemici, di connessioni verdi, di tutela delle aree fragili dal punto di vista idrogeologico.

Solo con un approccio capace di integrare le dimensioni edilizie, ambientali, infrastrutturali, energetiche e sociali sarà possibile superare definitivamente la logica dell’espansione urbana, incentivare il riutilizzo degli ambiti già urbanizzati e identificare quegli ambiti che per collocazione, stato di abbandono, scarsa accessibilità e inquinamento necessitano di interventi di natura più ambientale che edilizia.

La rigenerazione urbana è un tema complesso e multidisciplinare, pensare di risolverlo con più volumetrie, meno oneri di urbanizzazione e in deroga al piano evoca l’immagine degli indovini della IV Bolgia dell’Inferno dantesco, condannati a procedere con la testa rivoltata all’indietro. Così Regione Lombardia ha deciso di affrontare un tema del futuro con strumenti e approcci del passato.

Serena Righini



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  1. Sergio BrennaNon riesco proprio neanche ad intravedere il contrasto tra politiche urbanistiche della Regione e dei Comuni indicato problematico Serena Righini: entrambi sono per un disastroso passaggio dall'urbanistica all'economistica di stampo libersita !
    18 dicembre 2019 • 11:00Rispondi
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