29 settembre 2019
GRATTACIELI A MILANO
L'omologazione urbana
Già all’inizio del XX Secolo sono vagheggiati i primi progetti per dei grattacieli a Milano, come il Grattanuvole (1909) di Achille Manfredini, con i suoi – oggi modesti – 13 piani. Poco più di dieci anni dopo Piero Portaluppi guarda con ironico sospetto la nuova tipologia edilizia che arriva dall’altra sponda dell’oceano, tanto che il suo noto disegno del grattacielo SKNE (1920), in virtù della sua passione enigmistica, non illustra certo un ipotetico progetto ma piuttosto l’acrostico monito SKappaNe: ossia fuggi da un tale scenario urbano.
Del resto un certo atteggiamento critico nei confronti del grattacielo, derivato da una latente ideologia antiurbana, era radicato proprio negli Stati Uniti, come rileva il saggio di Giorgio Ciucci nel volume scritto con Francesco Dal Co, Mario Manieri Elia e Manfredo Tafuri La città americana dalla guerra civile al New Deal (1973). Nello stesso volume è Tafuri a sottolineare il carsico valore simbolico del grattacielo, che supera quello della sua convenienza funzionale e di capitalizzazione fondiaria.
I primi edifici alti, più che grattacieli, sono costruiti a Milano negli anni Trenta, tra di essi spicca quello della Snia Viscosa (1935-37) in piazza San Babila, di Alessandro Rimini, con i suoi – sempre modesti – 14 piani. Tale altezza era del resto quella ottimale del rapporto tra costi costruttivi e rendita economica, inoltre la sua posizione centrale e la sua presenza svettante sancivano in maniera evidente anche il ruolo promozionale della sua costruzione. Negli stessi anni viene realizzata la Casa-Torre Rasini (1932-35) di Emilio Lancia e Gio Ponti: una sorta di grattacielo “ambientato”, con un blocco più basso che si attesta all’altezza media della cortina edificata di corso Venezia, sul quale prospetta, e uno alto, coi suoi 13 piani, verso la circonvallazione dei Bastioni e sul retrostante parco, sul quale digradano i suoi volumi architettonici.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale la capitale lombarda inizia la sua ricostruzione materiale e simbolica, che colma i vuoti delle distruzioni belliche ed esibisce una vivacità imprenditoriale ansiosa di riconoscersi nella riconquistata democrazia. Di lì a un decennio verranno costruiti anche i primi veri grattacieli milanesi: il Grattacielo Pirelli (1956-60), di Gio Ponti, Giuseppe Valtolina, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli, con Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso, e la coeva Torre Velasca (1955-61) dei BBPR (Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers) con Danusso. La tipologia del grattacielo vinee metabolizzata dalla cultura architettonica italiana che ne accoglie il portato perennemente futuribile e lo innesta sulle raffinate sperimentazioni formali di Ponti e sulle sottili reminiscenze goticizzanti dei BBPR.
Si tratta di due esempi eccezionali, pensati per uno luogo specifico, come ben dimostrano il rapporto del Grattacielo Pirelli con la piastra alla sua base, che lo colloca nel tessuto urbano, o lo sfondo del Duomo su cui si staglia l’immagine della Torre Velasca. Walter Gropius si ispira al Grattacielo Pirelli per il Pan Am Building (1960-63) a New York, mentre le ricerche sul rapporto tra storia, luogo e progetto dei BBPR, di Ignazio Gardella e Franco Albini, solo per citare alcuni nomi, vengono stigmatizzate da Reyner Banham sulle pagine di «The Architectural Review» (aprile 1959) che titola: Neoliberty: The Italian Retreat from Modern Movement.
Quel titolo, che accusa sostanzialmente la cultura architettonica italiana di essere nostalgica, antimoderna, sottende un equivoco che oggi spesso persiste verso chi aspira a preservare una identità culturale propria nei confronti di un fenomeno di globalizzazione che riguarda anche l’architettura.
Ben lungi dall’alimentare le fila di un nazionalismo reazionario, sovviene la consapevolezza che la dilagante costruzione dei grattacieli a Milano, più che di un’aspirazione alla modernità, sia ancillare di un modello omologante non solo dell’architettura, ma anche della vita che in essa si svolge.
Le città sono sempre più simili tra loro e i grattacieli milanesi di oggi sono sordi alla lezione del Grattacielo Pirelli e della Torre Velasca: ossia dell’arricchimento di un confronto col dibattito internazionale e della capacità di manifestare una propria identità, senza rinunciare a una vocazione aperta e cosmopolita.
Negli Stati Uniti, dove il processo di crescita a grande scala è avvenuto da molti decenni, antropologi e sociologhi, più che architetti e urbanisti, hanno denunciato questo fenomeno di omologazione urbana e sociale. Già negli anni Sessanta Jane Jacobs, col suo, The Death and Life of Great American Cities (1961) metteva in guardia proprio sullo stravolgimento dello stile di vita imposto da questi processi e sulla distruzione di quelle che la studiosa americana aveva definito “unità di vicinato”.
Anche a Milano il grattacielo comincia a essere destinato non solo all’attività terziaria ma anche quella residenziale e la fortuna propagandistica di certe verzure epidermiche non basta né a vivificare un’identità culturale né a garantire un modello di vita e integrazione sociale accettabile.
Roberto Dulio
Professore associato di Storia dell’architettura –Politecnico di Milano
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