24 settembre 2019

LA “NON SCISSIONE” ED IL PD MILANESE

Nella palude del non detto, il dialogo faticoso tra innovatori e post renziani.


La singolare vicenda della “scissione amichevole” sta rapidamente trasmutando da pacifica separazione (così dichiarata) a palude melmosa dove si fatica a comprendere il motivo reale dell’addio di Renzi al partito che pure aveva amato, o meglio comandato. A Milano, come altrove, sembra quasi mancare l’oggetto del contendere e, in sua assenza, prevale come un senso di smarrimento e di incomprensione delle motivazioni effettive della fuoriuscita, del “perché lui è fuori e noi restiamo convintamente dentro”.

Così, chi si fosse trovato al teatro ECO, sabato mattina scorso, ad ascoltare la relazione introduttiva di Silvia Roggiani e i ben 35 interventi, alla fine si sarebbe quasi arreso, faticando a trovare nelle parole e nei toni nulla o quasi delle ragioni e del sentimento che, ordinariamente, accompagnano una scissione, che è pur sempre la separazione tra due componenti di una comunità fino ad allora unita. Ordinariamente, non si separano solo due visioni astratte, ma si spezzano rapporti, promesse, intese, intenzioni, patrimoni, elettorati, persino affetti, ciascuno addebitando all’altro la gravità dell’accaduto. Ma questo per ora non accade, fatica ad emergere.

Ben altre, davvero, furono le vicende che videro l’ultima scissione per ordine di tempo che colpì il campo democratico, ben avvezzo ad alterne vicende di sanguinosa lacerazione e riavvicinamento: invettive feroci dall’uno all’altro campo e visioni politiche ben delineate e contrapposte, esacerbate da rotture personali e sgarbi.

Nulla di tutto ciò, anzi, quasi un balletto di “prego, scusi, non c’è di che”, segni educati sotto cui cova un disagio rimasto inspiegato. Per ora.

La giovane segretaria ha ripetuto tenace e quasi didattica a più riprese la parola “scissione”, quasi ad esorcizzare il fraintendimento della reale portata dell’accaduto, ma il tono generale del dibattito dell’Assemblea del 21 settembre non ha cambiato sostanzialmente registro, insistendo quasi tutti sull’assenza di una reale motivazione politica della scissione e tantomeno di un casus belli che agisse da detonatore di una convivenza ormai insostenibile.

In effetti, di buon grado Nicola Zingaretti, pur avvertito del rischio imminente, aveva concesso agli amici di Matteo Renzi importanti riconoscimenti ministeriali, pensando, forse a ragione, che avrebbe tolto argomenti polemici al senatore fiorentino.

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L’assenza di esplicite argomentazioni politiche (don’t ask, don’t tell: io non le dico, e tu non me le chiedi) ha depotenziato politicamente ed emotivamente il dibattito sulla scissione, evitandone il deflagrare, ma al tempo stesso ne ha reso come inintelligibile l’effettiva motivazione e consistenza che da molti, anche nel partito locale, viene derubricata ad effetto di una visione personalistica, quando non alla insostenibile vocazione all’esercizio solitario del comando, quasi un tratto psicoanalitico che contrassegna la figura carismatica.

In assenza di una chiara definizione e rappresentazione della sostanza politica della scissione, che i maggiori contendenti per opposti motivi si sforzano di tenere sotto traccia, hanno avuto buon gioco nell’assemblea posizioni poco propense ad esplicitare i nodi reali, spie di una transizione post renziana ancora da completare, se non in alcuni casi avviare.

Accade così che Emanuele Fiano, mentre si duole della scelta operata da Renzi, rivendichi con orgoglio una stagione, quella dello sfolgorante primo governo Renzi, rievocata senza sconti ed anzi riproponendone il tratto “riformista” come la strada maestra da cui non deviare nei prossimi anni, a pena di patire lo sganciamento prima dalla realtà e poi dal voto popolare, come se questo non si fosse già ben manifestato, regnando Matteo.

E con Fiano numerosi altri, uniti, sia pure con diversi accenti tra lamentazione e sbigottimento, nel rivendicare in tutto o in parte l’eredità di quella stagione, e al tempo stesso nel considerare il PD come la propria casa ed un nuovo inizio.

In questa atmosfera opaca, dove scissionisti ed unionisti professano almeno in parte la stessa fede, inevitabilmente avviene che autorevoli esponenti milanesi della scissione chiedano (ed ottengano!!) da alcuni circoli spazi ed occasioni di incontro per poter spiegare (ora!?) le ragioni dell’addio (di ieri), cosa inverosimile sotto qualsiasi cielo politico, tanto da richiedere alla segretaria metropolitana, Silvia Roggiani, l’autorevole richiamo all’ordine: gli scissionisti, che tali sono, se li cerchino altrove spazi e momenti, o almeno non usino il logo del PD.

Del resto, se la scissione è annunciata con un Whatsapp dal capo dei fuoriuscendi al segretario Zingaretti, in molti si domandano come si possa chiedere legittimamente di spiegare e dialogare, ora per allora, per di più alla ricerca di un ambiguo proselitismo proprio a danno di chi si abbandona.

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Dunque una situazione confusa, paludosa, dove sembra prevalere una forte ambiguità di posizioni e di rapporti, una condizione che affonda le sue radici profonde nella stessa constituency della stagione zingarettiana, resa possibile, è bene ricordare, solo dal distacco non ancora pienamente metabolizzato, di diverse componenti a suo tempo assai vicine a Matteo Renzi.

Certo non mancano e non sono mancati sabato altri accenti, altre visioni, altre parole d’ordine, spesso provenienti da segmenti e rappresentanti dell’allora minoranza, o meglio delle diverse minoranze in cui si era confinata l’opposizione a Matteo Renzi.

Barbara Pollastrini e, con lei, tra gli altri Angelo Turco, Simonetta d’Amico e Lorenzo Pacini, se ne è fatta portavoce, sollecitando un deciso cambio di passo delle politiche e degli schieramenti verso le parole d’ordine che vanno ora per la maggiore: clima, donne, lavoro, giovani, lotta alle diseguaglianze come fonte di legittimità di qualsiasi riconoscimento del merito.

Posizioni che puntano il dito sulla necessità di introdurre chiari e visibili cambiamenti rispetto alla stagione renziana, subordinata com’era, e come resta, ad una visione del cambiamento alla Tony Blair, sostanzialmente neoliberista e poco sensibile alle diseguaglianze sociali.

Perché questa, in sintesi, sembra la vera questione lasciata in eredità dagli scissionisti al PD di Zingaretti, se si intenda restare post renziani, ed inevitabilmente tornare ad uno ad uno nell’orbita dell’astro renziano, o se si voglia effettivamente cambiare la stagione politica, rielaborando una nuova identità ed un nuovo programma effettivamente differente da quello che Italia Viva lascia intravedere.

E’ di oggi la notizia di un forte ed urgente cambiamento politico/organizzativo annunciato dal Segretario Zingaretti al termine della riunione della Direzione del partito, marcando con forza la necessità di un nuovo campo del centrosinistra ed una nuova identità.
Vedremo se sarà in grado di ridefinire un nuovo collante, o se le opacità e le cautele saranno foriere di una prossima osmosi tra post renziani nel PD e post renziani nel nuovo partito di centro.

Giuseppe Ucciero



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  1. silvanoSono tra coloro che non ritengono l'uscita di Renzi dal PD una "scissione" bensì una "separazione consensuale" non oltre rinviabile. E' del tutto inutile ricordare i ripetuti tentativi, fatti fino a qualche minuto prima della decisione, di scaricare su Renzi ogni genere di illazione, di colpevolizzarlo di qualsiasi cosa, da parte di molti esponenti della direzione PD. Il fatto, poi, che Zingaretti abbia designato ad occupare ruoli chiave nell'organico del partito persone che erano state per il NO al referendum e contro il Jobs Act, ha rappresentato io credo un ulteriore segnale della volontà di "derenzizzare" il PD, quasi a disconoscere (ancora!) l'operato di un governo giudicato da molti, non solo renziani, come il migliore degli ultimi 30 anni! Renzi, e fa bene a farlo, del governo da lui guidato rivendica le tante, buone cose fatte e chi nel PD prosegue invece nell'azione di denigrazione di quel operato dimostra solo di soffrire della "sindrome di Tafazzi". Che il PD, avendo inglobato sia il vecchio apparato DS che Margherita (ex DC), fosse di fatto nelle mani di una "gerontocrazia" claustrofoba e paralizzante lo sapevamo tutti. E' stato il verbo "rottamare" che è suonato stonato, ma l'azione che il verbo richiamava era sacrosanta! Resta il fatto che per il PD, con al proprio interno la "sinistra" che ha messo i bastoni tra le ruote a Renzi, e che si richiama a parole d'ordine buone (forse) 40 anni fa, conquistare un elettorato "astensionista" e "riformista-moderato" di centro (quello che ci aveva portato al 40,8% alle europee 2014?), sarebbe impossibile. Invece Renzi, da solo, può farlo. Poi, con un quadro politico diverso, si potranno valutare soluzioni oggi impensabili.
    2 ottobre 2019 • 18:08Rispondi
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