9 giugno 2019

MILANO. QUARTIERI IBRIDI E GENTRIFICATI

Esplode il nuovo lessico della sociologia urbana


 

Tra migrazioni interne (le “piene” dei meridionali che hanno segnato flussi massicci nel corso di tutto il Novecento) e incessanti migrazioni internazionali, per quanto mobili e in alcuni casi “di passo”, che hanno formato prima comunità, poi addirittura quartieri, le nostre città conoscono fenomeni di trasformazione rapida e multiforme che ormai separano piuttosto nettamente la memoria storica dal vissuto di trasformazioni materiali e immateriali.

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Insieme ad altre parole di connotazione – che si differenziano per la centralità di fenomeni strutturali e materiali oppure di fenomeni culturali e intangibili – la parola “ibridazione” ha preso da tempo un certo sopravvento. Così che il passaggio dalla chimica e dalla biologia all’antropologia, alla sociologia delle comunicazioni (quando si crearono parole miste come infotainment, docufiction eccetera), si è poi esteso alla sociologia urbana e all’urbanistica.

E attorno all’ibrido (spazi ibridi, processi ibridi, ricomposizione ibrida, eccetera) si leggono, si descrivono, si discutono molteplici evidenti trasformazioni che partono non da lineari percorsi identitari dei popoli residenti ma da intrusioni, intromissioni, integrazioni determinate dalla mobilità planetaria. Una mobilità che prima ancora che essere “consumo”, ovvero atti d’acquisto, scelte di occupazione, incidenza materiale sulle forme esterne, riguarda cambiamenti identitari, che avvengono dentro le persone e dentro le loro relazioni.

Per questo anche l’approccio al city branding e al country branding – cioè l’analisi di come evolve il processo identitario nei territori e nelle città e soprattutto di come esso trova narrazioni interne ed esterne che fissano nuova immagine e producono nuova attrattività – si rivela sempre più attento a cogliere l’ibrido che muta la tradizione. Lasciando quasi tutto – linguaggi, abitudini, estetiche, processi produttivi e di scambio, forme urbane – in condizioni di mostrare qualche traccia antica e molte tracce di nuova (accettabile o inaccettabile) creatività. In materia di public branding non ci si stanca mai di ricordare che al centro delle analisi non è che conti la sola “eccellenza” nei cambiamenti – che si vorrebbe essere il solo elemento per connotare un po’ propagandisticamente l’immagine complessiva – ma l’insieme dei fattori, buoni e cattivi, che il cambiamento stesso fa emergere.

Comunque, tra le trasformazioni quella delle parole connotanti è molto importante per caratterizzare nuovi dibattiti. Per un po’ dibattiti chiusi nel perimetro scientifico. Poi, recuperati e adattati ovvero un po’ banalizzati dai media, dibattiti che riguardano la politica, l’economia e le stesse percezioni dei cittadini. Dalla coniazione dei termini alla loro “esplosione” può passare anche molto tempo. E’ il caso – che credo sia interessante collocare dentro il grande e ormai lungo fenomeno dell’ibridazione – dell’imporsi di una brutta parola (soprattutto in italiano), la parola gentrificazione, che per quanto coniata dalla sociologa inglese (di origini tedesche) Ruth Glass nei sui studi sul cambiamento di Londra della prima parte degli anni ’60, sta trovando di recente una vera e propria popolarizzazione, che gli esperti pronunciano nei convegni come un dato scontato e che i meno esperti si vanno poi a vedere in rete per scoprirne etimo e significati esatti.

E infatti la stessa Accademia della Crusca consacra ora un lungo intervento di spiegazione, così come la rete restituisce molti materiali adattati a storie che riguardano processi similari di “gentrificazione”, che pure hanno avuto traccia anche giornalistica nel corso del tempo. Il contributo della Crusca riporta per esempio a Fernanda Pivano in analisi di New York negli anni ’90; al Corriere della Sera, a firma di Rita Querzè, sui cambiamenti dei quartieri milanesi di Baggio, Musocco, Navigli e Brera ai primi del nuovo millennio; a Mario Calabresi ancora su New York su Repubblica nel 2007 eccetera.

Proprio la Crusca estende la spiegazione, poi accolta nelle varie reinterpretazioni delle trasformazioni del lessico (Treccani, Wikipedia, eccetera). Ecco un brano di questo racconto:

“Dalla parola inglese gentrification si arriva al calco omonimico gentrificazione, senz’altro favorito dalla corrispondenza dei due suffissi derivativi, peraltro molto produttivi in tutte e due le lingue. In inglese abbiamo infatti un derivato sulla base gentry ‘piccola nobiltà’ (e per estensione ‘alta borghesia’) con l’aggiunta del suffisso -ification corrispondente all’italiano -ificazione con il significato di ‘far diventare come, prendere forma di’. Nella storia dell’italiano la derivazione di verbi, di matrice colta, attraverso il suffisso denominale -ificare, e poi di nomi, mediante il suffisso deverbale -azione è stata molto produttiva (…). Se la forma della parola dunque non pone particolari problemi, meno intuitivo risulta il significato da attribuirle e, di conseguenza, più difficoltosa la ricerca di un corrispondente italiano con cui tradurla. L’originale inglese gentrification, letteralmente ‘borghesizzazione’, è stato coniato e utilizzato per la prima volta nel 1964 da Ruth Glass (1) mentre il calco italiano è registrato per la prima volta dallo Zingarelli 2013, che data la prima attestazione al 1982”(2).

Di cosa si sta parlando? Lo spiega il sociologo Giovanni Semi dell’Università di Torino, studioso del fenomeno sistematizzato di recente in Gentrification. Tutte le città come Disneyland?(3).

“In questo momento storico la gentrification ha a che fare con una riconfigurazione della città, grazie al ritorno dell’interesse da parte dei pubblici o privati, nell’investimento della rigenerazione e riqualificazione della città stessa. Questa riconfigurazione non deve portare con sé l’arcaica distinzione geografica di centro e periferia, perché i capitali investiti toccano indistintamente e con una relazione logica, entrambi i contesti. Tradizionalmente la letteratura sulla gentrification, pur riconoscendo questi fenomeni di miglioramento della città, non può avere il rovescio della medaglia: solitamente c’è un aumento dei valori immobiliari (prezzi al metro-quadro e affitti) ma anche in maniera più sottile, ad un aumento del costo della vita. L’effetto è molto semplice: costa tutto di più, costa abitare, costano i servizi, costa muoversi, costa mangiare. In questo senso, chi riesce a catturare questo aumento dei valori ne approfitta (vendendo la propria casa a prezzi maggiorati oppure apprezzando le nuove potenzialità della zona). Sono però presenti diverse parti della società che non rientrano in questa cerchia: prima di tutto perché vedono aumentare i loro canoni (affitti o utenze molto spesso per gli immigrati, i più deboli sotto tutti i punti di vista) ma anche proprietari, figure cittadine diverse dal nuovo ceto sociale, che non si ritrovano più nel loro quartiere. L’esempio classico è quello del proprietario anziano, spaesato dal nuovo panorama commerciale fatto di sushi, birrerie artigianali, vinerie bio, negozi vintage. Anziani, immigrati o famiglie tradizionali dai ritmi di vita e di lavoro diversi, solitamente, non approfittano di questi cambiamenti e tendenzialmente li subiscono(4).

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Insomma ecco la evidente borghesizzazione di quartieri popolari che hanno perduto storiche missioni (soprattutto nel passaggio di de-industrializzazione) pur nel quadro di fenomeni quasi sempre non lineari.

Giampaolo Nuvolati, sociologo urbano dell’Università di Milano-Bicocca, erede di Guido Martinotti, ricorda infatti che uno dei caratteri trasformativi di quartieri che la fine dell’industrializzazione ha lasciato come spazi stranamente sagomati, attira spesso “classi creative”, cioè utenti di tipo artistico, che in realtà vogliono e possono convivere meglio con alcuni aspetti tradizionali. Anche se le esperienze oggi allo studio (Williamsburg a Brooklyn, Shoreditch a Londra, Pigalle a Parigi, Kreuzberg a Berlino, Isola a Milano, Testaccio a Roma, San Salvario a Torino) mostrano caratteri largamente espulsivi con tutti i pro della rigenerazione urbana e tutti i dubbi e le reattività rispetto a fenomeni socialmente sostitutivi.

Ibridazione e gentrificazione sono stati nei giorni scorsi materie di esposizione di articolate ricerche di campo – e soprattutto di un dossier di analisi (5) – che si è svolto all’Università IULM di Milano. Convegno qui non sintetizzabile, ma di cui merita di cogliere tanto il radicarsi in un crescendo di casi di studio (luci per esempio portati su NoLo, North of Loreto, trasformazione persino semantica della vecchia e un po’ malfamata via Padova), anche il progetto attivato dall’assessore all’innovazione del Comune di Milano Cristina Tajani – che ha introdotto una sessione del convegno – attorno ad un fenomeno che ha qualche prima conferma e su cui si lavora per crearne condizioni di maggiore stabilità, che consiste nel favorire il ritorno di un certo tipo di produzione manifatturiera sostenibile nel processo di recupero di aree ex-industriali, agendo su una domanda di ricollocazione urbana di alcune imprese, magari delocalizzate negli ultimi tempi, che – al pari di fenomeni di successo nel campo dell’arte (come Fondazione Prada, Mudec, Hangarbicocca eccetera) – cercano il loro insediamento negli spazi ibridi di una storia post-industriale che può anche non finire alla sola creazione di edilizia di lusso.

Insomma è vero che la mano pubblica non può arrestare e ingabbiare il processo trasformativo del mercato che nel mondo ha caratteristiche di forza nei costosi processi di rigenerazione urbana, ma è pure vero che le politiche pubbliche possono esprimere anch’esse una certa creatività e cercare di contenere effetti a volte perversi delle trasformazioni. Ciò dipende da un’idea di prospettiva proprio del brand urbano, che può far sconfinare le trasformazioni in alcune città lente in altre accelerate in speculazioni senza fine (anche del turismo) oppure equilibrare in molti modi possibili tradizione e innovazione.

Stefano Rolando

Immagini del convegno in IULM su ibridazione e gentrificazione. Tra gli altri, a sinistra R. Scramaglia e C. Tajani; a destra A. Mortara e GP Nuvolati

1 Introduction: aspects of change. In London: Aspects of Change, ed. Centre for Urban Studies, London: MacKibbon and Kee, 1964, xiii–xlii.

2 http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/gentrificazione-ma-vuol-dire

3 Edito dal Mulino nel 2015.

4 Intervistato da magzin.it (22 gennaio 2018), HTTPS://WWW.MAGZINE.IT/GENTRIFICATION-COSA-SUCCEDE-IN-CITTA/

5 Spazi ibridi. Nuove opportunità sociali, economiche e urbane; a cura di Ariela Mortara e Rosantonietta Scramaglia, Edizioni Lumi 2019.



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