3 maggio 2019
IL CIBO DI HELENA JANECZEK
Dai trani milanesi ai cuochi delle Twin Towers
Helena Janeczek, giornalista e scrittrice di origine tedesca, che nel 2018 si è aggiudicata il Premio Strega con “La ragazza con la Leica”, ritorna in libreria con “Cibo” (Guanda Editore), un argomento che oggi è diventato una delle principali occupazioni, ossessioni e manie. Nel “La ragazza con la Leica”, l’autrice, ricostruiva la vita della fotografa tedesca Gerda Taro, giovane e avventurosa pioniera del fotogiornalismo, compagna di Robert Capa, partecipe alla Guerra di Spagna: la prima reporter di guerra a cadere in battaglia.
Questa volta, Janeczek usa un titolo essenziale, “Cibo”, per annunciare immediatamente l’argomento e presentare al lettore il vero protagonista del libro. Nonostante la trama ripercorra la vicenda di una donna che cerca, per l’ennesima volta, di perdere peso, è il cibo ad essere il filo rosso attraverso cui la protagonista rievoca gli eventi della sua vita. Il cibo diventa uno strumento di racconto, una lente attraverso cui guardare il mondo, che non è solo una sequenza di ricordi e di azioni, ma si profuma di odori e si arricchisce di gusto, con una precisione quasi maniacale. A ogni persona, a ogni episodio, è associato un cibo particolare. Del padre ebreo, la protagonista ricorda le colazioni a base di pane e aglio, e le patatine fritte due volte, servite con con roast-beef caldo cucinato da sua madre. Delle compagne di scuola ricorda il couscous di Sabine e, alla festa di Ulrike Seitz, la crema di piselli con i würstel. Delle giornate trascorse da sola dopo le lezioni, ricorda i wafer al cioccolato grandi come fette di torta.
Janeczek racconta le ossessioni, che fanno da sfondo a un collage di storie, in cui si evidenzia il malessere femminile, fissazioni e pericolose fascinazioni del nostro mondo ricco e occidentale. “Se fossi un uomo adesso non dovrei mettermi a dieta, non dovrei preoccuparmi di invecchiare, adesso non dovrei sorridere a questo che non mi si schioda più di dosso, potrei attraversare il parco a piedi, potrei mettere il naso dovunque voglio”. Queste vicende diventano storia e costume, nella loro dimensione di metafora e indagine psicologica. “Immagino fossero fatti così i “trani”, tipici di Milano fino ai tempi in cui vi arrivò Nicola Mastrosimone che da signorino latifondista in cerca di fortuna e splendore metropolitano non li avrà frequentati, o forse soltanto dopo, quando tornò dal gelo russo e dalle imboscate jugoslave, vivo certo, ma almeno all’inizio spento e perso.”
I personaggi e i piatti loro legati sono indagati a fondo, per ricordarci che il cibo ha un valore sociale, simbolo di una necessità e di una comunione di cui non dovremmo mai dimenticare il valore solidale. Si va dalla Praga occupata dai sovietici, in cui annega la propria frustrazione per l’arrivo dei carri armati russi l’obesa Ruzena con i knedlicky di prugna, ai friarielli ricchi di sapore e dalle precise radici che danno forza a Teresa, o i krapfen delle feste di Ulrike con i suoi gravi problemi di nutrizione. Fino ad arrivare alla tragedia delle Twin Towers, l’11 settembre 2001, cui l’epilogo è dedicato.
Cristina Bellon
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