14 gennaio 2019

L’URBANISTICA DEL MERCATO VIENE DA LONTANO

La Storia si ripete puntualmente, la Storia non insegna


Quando al principio del nuovo secolo gli studiosi attenti ai cambiamenti delle relazioni fra l’urbanistica, l’economia e i proprietari fondiari ammonirono che la disciplina era entrata a pieno titolo nel libero mercato come qualsiasi altra merce, dovevano sapere che essa nel secolo breve apparteneva già in qualche modo al mercato. Anzi, in un processo alla rovescia era il mercato a essersi introdotto nell’urbanistica poiché lì c’erano territorio (terreni), piano (progetti), regole (eccezioni)… Con altre parole: la nuova condizione proveniva da lontano. Nel passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta amministratori pubblici e urbanisti, spregiudicati gli uni e gli altri, ritenevano ordinaria utilità proporre a imprenditori e a proprietari di aree destinate a verde pubblico dal piano regolatore la cessione di metà della superficie vincolata, concedendogli sull’altra una cubatura da calcolare, da contrattare, magari fino al limite massimo implicante l’intera area secondo l’indice di edificazione previsto per la zona. Sicché la densità di costruzione sarebbe risultata doppia nella parte neo-edificabile privilegiata, per di più beneficata dalla presenza del confinante verde pubblico. Secondo loro non esisteva altra possibilità di realizzare giardini comunali, ancorché dimezzati rispetto alle previsioni.

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Era una negoziazione sui generis, fra persone appartate ignote alla vita della città; originale vocazione proveniente da germi corruttivi già presenti allora nei partiti. Ad ogni modo non era caso di mercato «libero»; mancava la concorrenza stante la preesistenza della proprietà immobile o, nel caso dell’imprenditore, il legame con la proprietà e talora la collusiva alleanza precostituita con l’amministrazione pubblica. Tuttavia, quando questa vecchia maniera di mercanteggiare si allargava ai diversi quadranti della città poteva nascere un vero commercio urbano contraddistinto da una specifica situazione topografica e fondiaria, una specie di gara (quasi-concorrenza) delle proprietà vincolate e relative imprenditorie: per ottenere la priorità del contratto fra cessione del fondo e «diritto di cubatura», se così si può dire. Quale tramestio, inoltre, poteva nascondersi fra le quinte di tale rappresentazione con attori privati e pubblici?

In seguito il mercantilismo, se non il mercato come lo si intende oggi (anche in modo capzioso), ha dominato il territorio e il relativo pensiero comprendente derivati economici, urbanistici, edilizi (come nei famigerati titoli finanziari) gravidi di squassanti conseguenze sui rapporti sociali. La vittoria degli immobiliaristi e della rendita non fu messa in discussione neppure da un certa ripresa del profitto (anni dopo la sconfitta causata dal contratto all’Alfa Romeo del 1963), né da qualche infortunio nella speculazione finanziaria del minus habens fra quelli.

Mercato concorrenziale o monopolistico o oligopolistico, oppure offerto ai mercanti dalla stessa autorità pubblica, la compravendita si estendeva all’intero suolo nazionale. Si impiega (o si dovrebbe impiegare) il termine «libero», nel significato di aperto confronto fra domanda e offerta, di chiara trattativa in ogni specie di possibile scambio, materiali o prestazioni, corpi o anime quando niente di esterno la ostacoli o nessuna autority ne detti qualche regola a difesa di eventuali compratori deboli. Era dunque un’altra cosa il mercato del e nel territorio di allora? Un mercato bloccato? Non lo era, bloccato, se ha potuto esprimersi attraverso la gigantesca ampiezza che conosciamo; tanto, appunto, da costituire quasi in ogni anno dal dopoguerra la fetta maggiore o comunque troppo grossa della torta degli investimenti totali.

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Qualche impedimento alla privatizzazione liberista e conseguente sottrazione della terra nazionale alla società dei cittadini esisteva al tempo (quasi preistoria) di un relativo funzionamento anti-speculativo dei demani (terreni e costruzioni civili). Negli anni Cinquanta e primi Sessanta, quasi per naturale contraddizione rispetto ai comportamenti disonesti, fu approvato qualche Piano regolatore contenente aree di riserva demaniale, cioè intoccabili. Poi un precipizio si è aperto in questa resistita crosta; amministratori e politici intossicati dal bacillo liberista vi gettarono i beni patrimoniali della collettività insieme al proprio doppio dovere: di osservatori critici del mercato privato urbanistico-edilizio e di promotori e attori del progetto pubblico. Del resto negli anni Trenta le amministrazioni milanesi avevano ceduto buona parte del ricco demanio fondiario a gerarchi fascisti, a imprenditori amici, a finanzieri speculatori.

Dunque oggi niente di nuovo sul fronte nazionale dopo il Novecento e l’avvento del secondo millennio? Eh, purtroppo una novità spaventevole. Il neo-liberismo non vige soltanto nella realtà del territorio e nella gestione urbanistica di molti comuni e regioni. Il mercato «libero liberista libertario» del territorio e della stessa pianificazione (come, da prima, processo edilizio e progettazione architettonica) è diventato pensiero duro e forte fissato come una spessa piastra di titanio nel cervello dei politici e degli amministratori pubblici, mentre si conformava come profondo basamento e impenetrabile diaframma delle postazioni tenute dai rappresentanti della sinistra e degli urbanisti a loro collegati (succubi o maestri …). La negoziazione, vantata per prima dalla proposta del ciellino milanese Maurizio Lupi, assessore nella giunta del sindaco Gabriele Albertini (1997-2006), rilanciata inopinatamente dall’Istituto nazionale di urbanistica, non avrà bisogno di appartenere a un nuova legge approvata dal parlamento. Una pragmatica abitudine di enti pubblici e società private a contrattare fuor di ogni legittimazione democratica si consoliderà attraverso una miriade di episodi susseguitisi sempre più velocemente e costituirà essa la riforma legislativa dell’urbanistica.

A partire dalla vecchia madre di tutti gli accordi, la grande espansione di Milano sui terreni della Bicocca (chi avrebbe potuto immaginarla prima?) concessa da un sindaco a un «padrone delle ferriere» deciso a passare dal dovere capitalistico del profitto alla pacchia possessoria della rendita fondiaria, l’applicazione della nuova urbanistica privata intaccherà man mano ben più malamente città e territori. E cagionerà la trasformazione culturale anche dell’ultima classe resistente di intellettuali, in senso opposto ai bisogni e diritti della maggioranza dei cittadini, vale a dire della società tout court: termine sentimentale proveniente dall’analisi sociale dei maestri del socialismo. Un punto d’arrivo tanto più sorprendente del punto di partenza sarà impiantato a Bologna, la città leggendaria per i risultati ammirevoli raggiunti al suo tempo nella pianificazione pubblica, con realizzazioni esemplari anche a scala di piano particolareggiato.

Ah! Il famoso modello bolognese. Gli amministratori pubblici lo hanno capovolto in armonia con un’esagerazione masochistica dichiarata: la pianificazione e tutti i progetti siano alienati ai padroni della rendita fondiaria e della produzione edilizia, l’ente pubblico anticiperà l’approvazione e il supporto, magari oneroso. Così siamo pervenuti a un intreccio culturale ultraliberista, letteralmente reazionario. Parafrasando Marx: assistiamo a nuovi trionfi dei signori della terra, del capitale, della spada sui cittadini (vedi M. Musto, Karl Marx. Biografia intellettuale e politica, Einaudi 2018, p.122, IV capoverso).

Intanto a Milano l’ultima narrazione costituita dal negoziato con FS per il riutilizzo dei sette scali ferroviari liberati dalla vecchia funzione è sfociata in un lungo silenzio. Cosa ne sappiamo ora? Dopo le discussioni pressapochiste, le commesse progettuali inutili giacché illegali, il rifiuto dei concorsi, restano gli scartafacci del più importante problema urbanistico della metropoli nell’ufficio dell’assessore polivalente Maran. Tuttavia ci ha pensato il sindaco, invece di far ordine nelle carte e ritornare al confronto con FS da una posizione meglio costruita, forte, atta a rappresentare davvero il bene della popolazione e dei frequentatori, a rivolgere un invito stravagante alla controparte circa la destinazione del milione e 300 mila metri quadrati in causa. Mi sembra che pochi l’abbiano saputo, a me invece è capitato di ascoltare l’intervista ritrasmessa da Radio Popolare il 12 dicembre. Premessa di Sala: «Noi non facciamo case popolari». Seguito: «Le Ferrovie facciano quello che vogliono. Basta che il trenta per cento sia riservato a edilizia convenzionata» (sottolineatura mia). Così la richiesta, data l’identità sostanziale della convenzionata con l’edilizia corrente, non è altro che consentimento alla cementificazione dell’intera superficie.

Lodovico Meneghetti

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  1. artemide isimbaldiio ho partecipato solo 2 gg alle discussioni circa il riutilizzo dell'area Farini. Molti elementi tra cui la viabilità tramviaria e filobus erano già stati definiti e le discussioni mi sembravano molto un mettere in mostra un "predigerito" a cui dovevi dire sì. quale fosse l'idea dei cittadini della zona era del tutto inutile. Sono momenti non di confronto, ma di sconforto totale.
    16 gennaio 2019 • 15:29Rispondi
  2. Sergio BrennaFa bene Meneghetti, dall'alto della sua lucida memoria di novantatreene, a ricostruire l'onda lunga dell'urbanistica "liberisticamente contratta" a Milano (ma un po' dovunque anche altrove nelle grandi e medie città italiane) dagli Anni '30/'40 sotto il fascismo, poi di nuovo negli Anni '50/'60 del "boom" economico/edilizio sotto forma di "convenzioni" senza o contro i Piani Regolatori e infine ricomparsa a partire dagli Anni '90 del '900 coi nomi più avveniristicamente accattivanti di PII, PRU, Accordi di programma nella fase di più intensa finanziarizzazione degli investimenti immobiliari. Paradossalmente ci tocca rimpiangere la storicamente breve fase tra la Legge Ponte/D.M. n. 1444 del 1967/'68 e gli Anni '90, in cui - sia pur timidamente (prima 18 mq/abitante di spazi pubblici di quartiere a livello nazionale, poi 25-30 nelle leggi regionali da quella della Lombardia del 1975 in poi+17,5 di parchi territoriali) - un'idea almeno di dimensionamento adeguato, anche se non proprio di progettualità, della città pubblica si era andata praticando. Le sentenze della Corte Costituzionale del 1968 sulla decadenza quinquennale dei vincoli di uso pubblico (un termine illogicamente breve per le dinamiche urbane, se si considera che i piani urbani attuativi ne duravano 25-30 nella Legge sui Lavori pubblici del 1865 e dieci anche nella legislazione attualmente in vigore) se inattuati nei PRG, con l'obbligo di diversa destinazione non più pubblica (ma rimarrebbe sempre l'opzione del verde privato!) ha rilanciato sempre più estesamente l'opzione di una trattativa purchessia con la proprietà fondiaria privata. A Milano i piani derogatori i cui esiti vengono oggi rivendicati dalle più recenti Giunte non di centro-destra (non saprei come definirle altrimenti) e mediaticamente esaltati come riconquistata modernità urbana nascono appunto da quelle Albertini-Lupi (1997-2006) e Moratti/Masseroli (2006-2011) con l'assessorato all'urbanistica sempre saldamente in mano ciellina e sempre succube ad assegnare indici edificatori urbanisticamente illogici e smisurati all'area dell'ex Fiera (It=1,15 mq/mq, pari a 1 milione di mc) pur di far fronte ad un debito imprevisto provocato al nuovo Polo esterno di Rho-Pero dalle egolatrie architettoniche di Fuksas (ripetutesi al Centro Congressi Nuvola di Roma/EUR) rispetto al semplice e funzionale lay-out predisposto dal capo UT di Fiera, ing. Vettese (che potei vedere da assessore all'urbanistica a Rho nel 1994-'98) e di seguito all'ex Centro Direzionale/Porta Nuova Project (It=1,00 mq/mq). Con quegli indici edificatori solo per realizzare i 44 mq/abitante di verde e spazi pubblici previsti per norma urbanistica (26,5 di quartiere+17,5 di parco territoriale) sarebbe occorso quasi il doppio dell'area esistente e, infatti, ne sono stati fatti realizzare 1/3 (15 mq/abitante) e anche così inevitabilmente con edifici molto alti (180-200 metri) e addossati fra loro (soprattutto alle Tre Torri di Citylife, che in inverno fanno schermo continuo all'insolazione degli edifici attigui preesistenti a nord-est). Sugli ex scali ferroviari le Giunte Pisapia/De Cesaris e Sala/Maran rivendicano di aver abbassato l'indice edificatorio territoriale medio a It=0,65 mq/mq, ma anche così si possono effettivamente realizzare solo i 25-30 mq/abitante di verde e servizi di quartiere oppure il cosiddetto Fiume Verde auspicato da Boeri come verde naturalistico, ma non vi è capienza sufficiente per entrambi nemmeno con edifici di nuovo molto alti e ravvicinati fra loro, sia che li si preveda sui bordi o al centro delle aree di trasformazione urbana, come sinora hanno provato a fare gli esercizi progettuali degli archistar convocati da Boeri e FS/Sistemi Urbani nel maggio 2017 per un evento espositivo alla Stazione di Porta Genova e ora di nuovo con il bando per dei masterplan dimostrativi da proporre entro la primavera prossima. La situazione è ancora più gravemente irrimediabile con esercizi di inventività progettuale sugli ex scali Farini e Romana (i più estesi e dove l'edificabilità media arriva a concentrarsi sino a 0,80-0,90 mq/mq - cioè molto prossima a quelle di ex Fiera/Citylife e Porta Nuova Project, e, quindi, inevitabilmente con analoghe densità ed altezze degli edifici - dato che gran parte del verde è previsto debba realizzarsi sull'intera area dell'ex scalo S. Cristoforo, dove sarà ben poco usufruibile dai nuovi abitanti sugli ex scali Farini e Romana e da quelli dei quartieri attigui sulle cui già scarse dotazioni di verde e servizi i primi si riverseranno. E' per questo che ho promosso un ricorso al TAR da parte di cittadini residenti accanto agli ex scali Farini e Romana contro l'Accordo di programma approvato dal Comune, ma che purtroppo verrà discusso solo a ottobre di quest'anno. Il Sindaco e la Giunta si sono costituiti a difesa delle decisioni già ratificate con FS/Sistemi Urbani e si mostrano totalmente sordi alle ragioni addotte dai cittadini, benchè l'esito loro favorevole potrebbe rimettere radicalmente in discussione le scelte di fondo dell'Accordo e l'esito di immagine urbana che obbligatoriamente prefigura. Non è questione di essere pregiudizialmente contrari all'immagine degli edifici molto alti e raddensati sul modello puntuale dei Down Town District, ma forse ormai Milano quel modello di presunta modernità urbana l'ha già praticato a Citylife e Porta Nuova (temo forse nelle localizzazioni sbagliate, ma ormai tant'è...) e non c'è motivo logico che debba obbligatoriamente e così estesamente essere riprodotto per gran parte il corpo urbano, per di più a scapito e danno ulteriore sia dei nuovi abitanti sia di quelli dei quartieri attigui. Su questa assunzione di responsabilità progettuale pubblica sarebbe bene che Sindaco e assessore Maran fossero aperti al confronto, anzichè trincerarsi dietro gli esiti inevitabili di decisioni sbagliate già assunte e in cui - non a caso - "le Ferrovie facciano quello che vogliono, purchè...". Come dice giustamente Meneghetti, "il consentimento alla cementificazione degli interi scali Farini e Romana".
    16 gennaio 2019 • 17:04Rispondi
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