24 aprile 2018

LE PAROLE NEL NOSTRO FUTURO

Capirci prima che la Torre di Babele ci renda estranei


Chiariamoci le idee. Apriamo il dibattito su una qualità ambigua del nostro tempo, “avere visione”. Che per alcuni connota ineludibili doti di un capo, anche se non sempre essa ha grande domanda sociale, dalla quale inevitabilmente dipende. Questa introduzione è divisa in tre articoli. La prima sulle definizioni. La seconda sul rapporto “domanda-offerta”. La terza sul contesto di Milano.

rolando16FBPrima parte: la contraddizione semantica

Basta accedere alla rete per capire velocemente che la parola “visione” contiene una ampia ambiguità. Stando alle funzioni di base c’è chi la interpreta come la dimensione del sogno, altri al contrario la considerano una forma di pre-ordinamento. Cioè per alcuni è una sorta di processo onirico, per altri qualcosa di estremamente razionale. Ma siccome “visione” è un sostantivo, ci dovrebbe essere un merito oggettivo nel carattere di questa parola. Cerchi e anche qui il risultato è ambiguo: talvolta significa l’atto del vedere, altre volte l’apparizione. Cerchi ancora e continuano le ambiguità: tra essere la rivelazione di un mistero (diciamo pure una profezia) o piuttosto il trattamento teorico di una realtà. Se poi ci allarghiamo alle dimensioni dei contesti interessati alla “visione” c’è chi descrive la potenzialità di contenere un’opinione (anche molto limitata), c’è chi la immagina in grado di contenere niente di meno che la lettura generale e sistemica del mondo.

La parola “visione” non è proprietà di questa o quella disciplina. Diciamo che l’economia e la politica da tempo dichiarano che essa deve avere una chiara e forte priorità esercitata. Nel mondo aziendale soprattutto la parola (rigorosamente in inglese) vision è legata alla necessità di affrontare ora e non “fra un’ora” la fine certa di un ciclo (di prodotto o di processo), mettendo in atto prima di quella fine un cambiamento necessario.

Nella politica c’è di solito un certa enfasi sull’idea di “cambiare il mondo” e non di limitarsi a contemplarlo; ma il trattamento – che ne consegue – della parola vision, meno vincolata a dati tecnici, se non è sorretto da forti consapevolezze rischia di cadere nella non chiarezza delle ambiguità descritte. Nelle scuole di management vision e mission sono termini da chiarire nel primo giorno di lezione.

Nelle scuole di formazione politica (ma ci sono ancora?) sono termini che entrano in scena dopo che storia e filosofia hanno disegnato (ma forse dovrei dire disegnavano) una pregiudiziale deformante: l’appartenenza. Oggi le distanze si sono accorciate. In ogni caso tanto nelle aziende quanto nei partiti con la parola visione si cerca di far luce sulla necessità di disegnare uno scenario futuro. Molto spesso si usa questa parola ma il tragitto è poi molto più corto rispetto all’inquietudine dell’espressione futuro: ci si limita ad identificare una più generica capacità di far emergere ideali, valori, aspirazioni da intendersi come la materia prima almeno per costruire obiettivi.

Quanto alla univocità della parola “futuro” ogni cultura disciplinare applica i suoi paradigmi, tanto che un fisico dell’universo ragiona per millenni, un antropologo ragiona per secoli, un demografo ragiona per decenni, un sociologo ragiona per stagioni, un economista ragiona per trimestrali e un comunicatore ragiona per i tempi di un tweet. Personalmente, come analista delle identità e delle narrazioni, ho l’obbligo di usare diversi paradigmi temporali.

È allora necessario stringere il campo, altrimenti la fisionomia identitaria e funzionale della visione e dei visionari si dilata e sguscia come un’anguilla. I linguisti a questo punto propongono di ricorrere alla etimologia. Che sulle prime non aiuta un gran che. Dal latino visio, derivazione di visus, participio passato di videre che significa vedere. Ma se si procede un po’ nell’approfondimento si scopre che la radice del latino videre è id. Che si ritrova anche nel greco antico del verbo “oida”, che significa sapere. Una forma verbale, coniugata al perfetto, che esprime la conseguenza dell’azione di “vedere”. L’interpretazione è ben chiara: io so perché ho visto.

L’approfondimento ci spinge a dire che la visione è prima di tutto esperienziale non impulsiva, ovvero condizionata dalla conoscenza più che dalla creatività. Che poi il sogno, o meglio l’ardimento artistico, la prefigurazione irrazionale, possano ispirare un mondo migliore e diverso, qui sta tutta la potenza artistica genuina collocata nella ricerca dell’energia immateriale. Ma – attenzione! – noi sappiamo anche che questa procedura, se contrapposta alla vera conoscenza, ha anche prodotto i maggiori misfatti della storia.

La nostra sommaria esercitazione linguistica e semantica ci lascia insomma con qualche traccia utile ma anche con alcune perplessità. Potremmo ancora far leva sull’uso dei “contrari”, che qualcosa in più ci svelano. Alla parola “visione” nei dizionari circolanti si contrappongono le parole cecità, concretezza, limitatezza. E ancora il repertorio dei modi di dire ci porta a vedere che l’uso della parola rafforza più le radici cognitive che quelle dell’irrazionalità sognante. Per esempio l’espressione “avere una chiara visione” viene usata per indicare la capacità di avere un giudizio obiettivo sulle cose che si presentano.

Se dovessimo chiudere questo rapido excursus concettuale, soprattutto immaginando contesti politico-istituzionali, associativi e imprenditoriali, parleremmo della capacità di radunare tutte le cognizioni interpretative disponibili per spingere la valutazione sulle opzioni da perseguire nei limiti del tempo in cui, tra minacce e opportunità individuabili, ci sia il maggior vantaggio sostenibile per gli interessi generali rappresentati. (continua)

Stefano Rolando

rolando16



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