28 giugno 2017

GLI SCALI E L’IDEA RIBALTATA DI CITTÀ: PRIMA CHE IL “TRENO” CI TRAVOLGA

La logica del tecnicismo dietro cui si nascondono l’architetto e il legislatore


Nel suo ultimo contributo sulla vicenda del processo che condurrà al recupero degli scali ferroviari dismessi, Luca Beltrami Gadola ha posto la questione della chiarezza sulla natura giuridica dei soggetti sottoscrittori dell’Accordo di Programma, perché senza di essa il percorso democratico al quale ricondurre il senso e il segno dell’operazione rischia di essere ridotto a pura formalità.

03barzi24FBOggi sappiamo che essa prevede «oltre 675mila mq di verde, 97 milioni di euro per la Circle Line, 32% delle volumetrie per funzioni non residenziali, 3.400 alloggi per le fasce sociali più deboli», così almeno recita il comunicato stampa seguito alla sottoscrizione dell’Accordo di Programma da parte di Comune di Milano, Regione Lombardia, Ferrovie dello Stato Italiane con Rete Ferroviaria Italiana e FS Sistemi Urbani, e Savills Investment Management Sgr, ma ciò che ancora non sappiamo è che impatto tutto ciò avrà sulla città esistente.

Alcuni possibili scenari relativi alla trasformazione delle sette aree oggetto dell’Accordo di Programma erano stati presentati alla cittadinanza qualche tempo fa, ma la città per come è oggi – più che la sua dimensione amministrativa, pur in versione allargata all’ente locale di recente istituzione, si tratta della regione metropolitana da 7 milioni di abitanti emersa dal Rapporto OCSE del 2006 – proprio non emergeva, se non per una lodevole eccezione, dalle idee progettuali installate sui binari di Porta Genova.

Le visioni architettoniche relative ai 1.250mila mq di aree di trasformazione oggetto dell’Accordo di Programma, che dovrebbe anche essere oggetto di discussione politica e di dibattito pubblico, rappresentavano solo la possibile realizzazione della sua componente edilizia, ma gli edifici – ci avvisava Jane Jacobs quasi sessant’anni fa – non dovrebbe mai essere anteposti alla natura sociale ed economica dell’organismo urbano.

Eppure, osservando gli elaborati dei cinque studi di architettura incaricati di immaginare le nuove edificazioni mi veniva alla mente un brano, che riporto nella mia traduzione, di Downtown Is for People, un saggio del lontano 1958 nel quale Jacobs affrontò alcuni dei temi poi sviluppati nel suo celeberrimo Vita e morte delle grandi città: «Architetti, urbanisti – e uomini d’affari – sono tutti presi da sogni di ordine, affascinati da modelli in scala e vedute a volo d’uccello. Si tratta di una maniera indiretta di avere a che fare con la realtà, che è, purtroppo, sintomatica di una filosofia progettuale ora preponderante: gli edifici vengono messi davanti a tutto, essendo l’obiettivo di ricostruire la città quello di aderire ad un concetto astratto di ciò che, secondo logica, dovrebbe essere. Ma a chi appartiene questa logica? La logica dei progetti e quella dei bambini egocentrici, i quali, giocando con i loro graziosi cubetti gridano “Guarda cos’ho fatto!” – un punto di vista assai coltivato nelle nostre scuole di architettura e progettazione. E i cittadini che dovrebbero avere più informazioni sono tanto affascinati dal semplice processo della ricostruzione, da essere i risultati finali secondari ai loro occhi».

Jacobs (autrice purtroppo più citata che letta) pone una domanda sulla quale è bene riflettere se la posta in gioco è una così importante trasformazione urbana come quella del recupero degli scali: con quale logica progettuale si intende procedere a trasformare la città e a chi appartiene questa logica?

«Non c’è alcuna logica che possa essere imposta dall’alto alla città, è la gente a generarla, ed è ad essa, non agli edifici, che dobbiamo adattare i nostri piani» e c’è un solo modo – sosteneva Jacobs – per stabilire come trasformare la città perché funzioni per i suoi abitanti: l’osservazione dello stato di cose presente. Su ArcipelagoMilano (vedi gli articoli sugli Scali Ferroviari) i richiami all’indagine dei bisogni della città, da anteporre alla definizione dei volumi da edificare, è stata più volte evocata, ma evidentemente nulla è riuscito a scardinare il meccanismo predefinito dall’Accordo di Programma, anche se non è detto che poi si incarnerà in qualcuna delle visioni architettoniche che ci sono state graziosamente anticipate.

Forse è il caso di girare agli attori da cui dipendono le future trasformazioni l’ammonimento di Jane Jacobs: non c’è bisogno di essere «un urbanista o un architetto, o di arrogarsi le loro funzioni, per porre le domande giuste» e farsi qualche domanda su come cambierà la città reale in seguito al recupero degli scali – in fondo, recita il comunicato stampa, «si tratta del più grande piano di rigenerazione urbana che riguarderà Milano nei prossimi 20 anni, uno dei più grandi progetti di ricucitura e valorizzazione territoriale in Italia e in Europa» – ha anche la funzione di interrogare la politica sull’idea di polis che ha il mandato di governare.

In Vita Activa. La condizione umana Hannah Arendt scriveva che l’architetto e il legislatore appartengono alla stessa categoria, perché definiscono lo spazio e la legge, ovvero il dominio pubblico e la struttura della polis, ma queste «entità tangibili» non definiscono la polis in sé e «nemmeno il contenuto della politica», azioni che invece spettano ai cittadini. In quel lontano 1958 Jane Jacobs e Hannah Arendt ci hanno detto, da diverse angolature che la città (la polis) è costituita da coloro che abitano lo spazio definito dai suoi manufatti e retto dalle sue leggi, ma ciò che succede a Milano nel 2017 ci restituisce un’immagine capovolta della città, in cui sembra che lo strumento legislativo (Accordo di Programma) e suoi effetti spaziali (i progetti architettonici) siano in grado di definire in sé come essa sarà in futuro (naturalmente migliore, più verde, più smart e via aggettivando).

Il simulacro di partecipazione che finora abbiamo visto in azione non fa che confermare l’evidenza che ai cittadini resta il ruolo di spettatori, la cui passività dipende da quanto riusciranno o vorranno chiedere conto alla rappresentanza politica della logica che presiede il processo ormai in corso. Il civismo che ha segnato la recente vicenda amministrativa di Milano ne esce sconfitto, ma d’altra parte non bastano le donne e gli uomini di buona volontà se la distanza tra la politica e la polis rischia di diventare incolmabile.

Michela Barzi

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