6 novembre 2013

MILANO. RIPRENDIAMOCI IL DEMANIO STATALE: È NOSTRO


Milano ha bisogno di rialzare la testa: non ne possiamo più di notizie deprimenti e di scandali che, se pure non riguardano solo Milano, la vedono comunque coinvolta, travolgendo gli uomini arroganti che nelle opache stanze del potere finanziario e immobiliare milanese, hanno fatto strame delle sue istituzioni e delle sue ricchezze finanziarie, imprenditoriali e del suo territorio.

Le legittima aspettativa di giustizia si sta spegnendo nell’amarezza dello spettacolo delle cattive frequentazioni di uomini e donne delle istituzioni.

Che dobbiamo fare? Per non morire cercare le poche buone notizie tra le righe dei giornali che, loro pure in preda al pessimismo, le buttano là come se nulla fosse. Ada Lucia De Cesaris, la vicesindaco assessore al territorio, donna di poche e spesso ruvide parole ha detto: “Senza accordo quelle aree valgono zero”. Si riferiva alle aree delle Ferrovie dello Stato, quelle degli scali ferroviari, del tutto o in parte dismesse e che le Ferrovie vorrebbero valorizzare (leggi “vendere per costruire”) a loro piacimento. Le parole della vicesindaco sono la buona notizia.

La sua strada è tutta in salita perché le amministrazioni precedenti la Giunta Pisapia hanno lasciato in eredità accordi parzialmente in essere che consentono furibonde resistenze; amministrazioni quelle di allora che non solo per il demanio ferroviario ma anche per quello militare si sono comportate da mezzane chiedendo poca mercede a favore delle comunità che rappresentavano in cambio di vaste concessioni in termini di edificabilità.

Da quando ho avuto l’occasione di pubblicare qualcosa sui giornali milanesi, Repubblica in particolare e ora ArcipelagoMilano, mi sono sempre battuto perché le aree milanesi di demanio statale (scali e rilevati ferroviari e poi caserme in particolare) venissero semplicemente restituite alla città, al più dietro un simbolico corrispettivo che equivalesse, ancorché rivalutato monetariamente, al prezzo di esproprio originariamente pagato dalle varie amministrazioni dello Stato che ne erano così divenute proprietarie. Il mio ragionamento, più basato sull’equità e sulla politica che su norme di legge, mi porta a dire che il valore che queste aree hanno assunto non è certo aumentato per gli investimenti che vi furono fatti per il loro uso ma semplicemente perché attorno vi è cresciuta una città fatta di strade, piazze, servizi e infrastrutture che le hanno valorizzate. Chi ha fatto questi investimenti?

Nessuno negherà che a farli furono tre o quattro generazioni di milanesi che vi costruirono case, fabbriche, uffici e che con le loro tasse permisero al Comune di farvi strade, scuole, parchi, giardini, monumenti: insomma una città di un milione e mezzo di abitanti. Fu anche merito delle Ferrovie? Certo, ma con che soldi si fecero gli impianti e soprattutto con che soldi ne abbiamo coperti i disavanzi?

Oggi su quelle aree vorrebbero far quattrini facendoci balenare che una parte di quel denaro andrebbe a migliorare la nostra rete. Vi fidereste? Milano è un cliente delle Ferrovie come il resto del Paese niente di più o di diverso. Per chi non mi vuol seguire su questa via, ne propongo un’altra. Non ho ancora chiaro, dopo le tante ipotesi fatte, quanto le Ferrovie incasserebbero dalla vendita delle loro aree ma qualunque cifra incassino sarà sempre inferiore al benessere che deriverebbe per la città dal poter disporre gratuitamente di un bene territoriale indispensabile a dar respiro e persino magnificenza a una città vittima più di ogni altra della speculazione immobiliare. Mi sia permesso anche un malevolo inciso: vedo sempre con sospetto queste vendite di beni pubblici che finiscono inesorabilmente in mano ai soliti noti e ai loro amici, finanziati dalle solite banche anch’esse amiche con quei famosi giochi di scatole cinesi per le quali alla fine a ripianare le perdite, generate da benefit favolosi e profitti distratti altrove, siamo sempre noi contribuenti.

Il demanio pubblico quando somiglia come una goccia d’acqua a un’area dismessa non ha valore o meglio l’ha solo per la collettività, come bene comune per le sue necessità: verde, case ad affitto ragionevole, scuole e spazi per il tempo libero e la socialità.

Questa riappropriazione è una battaglia di civiltà. Non combatterla dopo che Lucia De Cesaris ha fatto il primo passo, sarebbe imperdonabile miopia e soggezione a un modello di sviluppo urbano non solo non condivisibile ma da combattersi.

Luca Beltrami Gadola

 

 

 

 

 

 



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