22 marzo 2011

musica


IL NABUCCO NAZIONALE

Criticare un’opera o un concerto diretti da Riccardo Muti è fastidioso e irritante; ormai lo sappiamo, è un fenomeno ben noto che non riguarda solo lui né solo il mondo musicale. E’ lo star system, e funziona così: quando qualcuno riesce a diventare un divo, in qualsiasi campo, non importa se per reali meriti o per accorte campagne “promozionali”, i media non osano più criticarlo per non mettersi contro i propri lettori e ascoltatori, i mugugni si svolgono solo nell’intimità dei salotti (o delle osterie, dipende dai generi) mentre i critici che osano esporsi e cantare fuori dal coro vengono tacciati nella migliore ipotesi di snobismo, nella peggiore d’invidia o di malevolenza. Noi non siamo critici, come più volte abbiamo detto, ma solo ascoltatori attenti che amano confrontare le loro opinioni, e dunque speriamo di non infastidire o irritare più di tanto.

Il caso Muti è emblematico e ricorda analoghi e assai noti casi di taluni “grandi” architetti – le cosiddette “archistar” – e in generale quei personaggi che, grazie soprattutto alla televisione, hanno raggiunto un grado di notorietà tale da sovrastare o annientare ogni possibile dissenso: criticarli diventa politically uncorrect.

Siamo in molti a ritenere che Riccardo Muti sia considerevolmente sopravvalutato e che debba la sua fortuna a quell’associazione con Carlo Fontana che – forte di grandi protezioni politiche e dell’intero establishment industriale milanese – ha governato la Scala per un ventennio (1986-2005) allontanando dal Teatro e da Milano tutto il mondo della grande musica internazionale, finché non è implosa provocando la rivolta dell’orchestra e delle maestranze. A Milano Muti era diventato una vera e propria istituzione ma, fuori dalla cerchia del consenso che si era creato, i dubbi sulle sue qualità artistiche erano fortissimi; basta andarsi a rileggere il famoso articolo del New York Times del 13 agosto 2000 “Muti was the wrong man for the Philarmonic” nel quale Bernard Holland paventava l’arrivo di Muti alla N.Y.Philarmonic e – alludendo alle sue “maniere imperiose e addirittura arroganti” – raccontava come l’orchestra gli opponesse un perentorio rifiuto. Sarebbe però ingiusto negargli grandi capacità professionali e altrettanto grande impegno in tutta la sua azione direttoriale; il problema non è il suo sapere né il suo saper fare, quanto piuttosto il suo essere, essere musicista, poeta, artista.

I recenti problemi di salute, affrontati con dignità e superati con encomiabile spirito di sacrificio, e ancor più il suo appello pubblico a favore della cultura e dell’arte, ci avevano avvicinato a lui, abbiamo riconosciuto in quei passaggi una passione che di solito stentiamo a trovare nella musica da lui diretta; sopratutto questo Nabucco, eseguito per i 150 anni dell’unità d’Italia e dunque in un momento di grande emozione, ci aveva fatto fortemente sperare e credere che sarebbe stata la volta buona, che finalmente avrebbe fatto trapelare sentimenti riconoscibili e ci avrebbe restituito un Verdi meno ingessato e distaccato.

L’abbiamo visto solo in televisione e non in teatro, forse avevamo troppe aspettative: ma non è possibile tacere la profonda delusione. Un’esecuzione piatta, per nulla aiutata da scene insignificanti e da una regia sbiadita, una musica senza pathos, incapace di trasmettere emozioni; anche sul piano del gesto, un Muti che si vedeva come non avesse null’altro da raccontare che le scansioni temporali e la rappresentazione della propria autorità di direttore; certamente non il senso profondo, il calore, il colore della musica che andava evocando.

E’ vero anche che intorno al Nabucco si sono creati troppi miti: la storia terribilmente complicata da cui è fin troppo facile cogliere solo l’afflizione di un popolo senza patria, il grande equivoco sul significato del coro degli ebrei, il finale radioso che induce ad avvalorare speranze politiche in momenti bui della storia, tutto si lega con il tema struggente e con la straordinaria cantabilità del “Va’ pensiero” e così si finisce per attribuire all’opera significati ad essa totalmente estranei e tuttavia prossimi all’emotività del momento politico; specialmente in epoche – come quella e come questa – di intima frustrazione popolare.

Muti non aiuta a capire i significati veri dell’opera né a parafrasare quelli presunti, ma si preoccupa molto che in orchestra tutto funzioni bene e che nessuno sfugga ai rigori della partitura; i significati “altri” non contano, non hanno a che fare con il ruolo del “Maestro”.

 

Musica per una settimana


* giovedì 24, venerdì 25 e domenica 27 all’Auditorium un concerto assolutamente inusuale: “Sotto il segno dello scorpione” per fisarmonica e orchestra di Sofia A. Gubaidulina (l’ottantenne compositrice tatara che vive ad Amburgo) e The Planets, suite per coro femminile e grande orchestra, capolavoro del 1915 dell’inglese Gustav Holst (1874-1934), diretti da Wayne Marshall, ospite ormai usuale dell’orchestra Verdi e del coro di Erina Gambarina
* giovedì 24 e sabato 26 al teatro Dal Verme per i Pomeriggi Musicali il sessantottenne direttore svizzero Michel Tabachnik (noto per la sua appartenenza alla setta esoterica dell’Ordine del Tempio Solare!) propone le Danze concertanti di Strawinskj, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 5 di Prokof’ev (con il giovane pianista calabrese Giuseppe Albanese) e la Settima Sinfonia di Beethoven
* lunedì 28 al Conservatorio, per le Serate Musicali, il pianista Freddy Kempf eseguirà varie trascrizioni e parafrasi di Liszt da arie del melodramma italiano (Bellini, Donizetti, Rossini, Verdi.)
* martedì 29 nell’Aula Magna dell’Università, in via Festa del Perdono, l’orchestra dell’Università degli Studi di Milano diretta da Alessandro Crudele esegue, dopo la sinfonia del Barbiere di Siviglia di Rossini, l’Idillio-concertino di Ermanno Wolf-Ferrari per oboe (Céline Moinet) due corni ed archi, la suite da “Masques et Bergamasques” di Gabriel Fauré, e “Le tombeau de Couperin” di Maurice Ravel
* mercoledì 30 per la Società dei Concerti i Nürnberger Synphoniker si affidano a due trentenni, il direttore inglese Alexander Shelley e la pianista bulgara Plamena Mangova, per eseguire l’ouverture della “Sposa venduta” di Smetana, la “Fantasia su temi popolari ungheresi” ed il Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Liszt, e concludere con la Terza Sinfonia di Brahms
*E infine lunedì 28 alle ore 18, nella Sala Puccini del Conservatorio, incontro con Michele Campanella in occasione dell’uscita del suo libro “Il mio Liszt” (editore Bompiani, pagine 272), scritto per la celebrazione dei 200 anni dalla nascita del compositore. Campanella, considerato uno dei maggiori virtuosi e interpreti lisztiani – cui la Società “Franz Liszt” di Budapest ha conferito il Gran Prix du Disque nel 1976, nel 1977 e nel 1998, e l’American Liszt Society ha assegnato nel 2002 la medaglia ai “meriti lisztiani” – ha deciso di dedicare l’intera sua attività artistica del 2011 al grande ungherese ideando e realizzando le “Maratone lisztiane“, un evento mai verificatosi prima d’ora.

 questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org

 


 



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