11 febbraio 2009

AVANTI E INDIETRO


Il pendolarismo nelle sue attuali dimensioni segna la sconfitta della gestione urbanistica del territorio lombardo e l’incapacità di governare il fenomeno di crescita edilizia. L’area milanese è in preda allo “sprawling”, una parola inglese che potremmo tradurre in “stravaccamento” o romanescamente in “scasciamento”: l’edificazione disordinata, causa prima – tra le altre – del pendolarismo. Ma pendolarismo vuol dire anche disagio, fatica, spreco di risorse, identità sociale dispersa.

I pendolari, che ormai chiamiamo city users – usiamo sempre l’inglese quando non sappiamo che pesci prendere come quando chiamiamo le case popolari housing sociale – sono un costo per la città ma anche una fonte di suo reddito e di suo benessere. I milanesi attivi sono 630 mila, il 48% della popolazione, ma di questi 130 mila se ne vanno ogni giorno a lavorare in provincia; d’altra parte tutte le mattine entrano a Milano 570 mila persone, alcune per ragioni di studio o di saltuarie necessità ma almeno 450 mila vanno ad aggiungersi al mezzo milione di operosi milanesi. Insomma del milione o quasi di persone attive a Milano circa la metà viene da fuori: i pendolari.

Se tenessimo fermo il 48% (molto basso) del tasso di occupazione e volessimo una Milano basata solo sui milanesi, dovremmo essere una città di quasi due milioni di abitanti, il sogno dell’assessore Masseroli. Oggi in ogni caso onori ed oneri ce li dobbiamo dividere e condividere con i pendolari e quindi teniamone il dovuto conto nelle scelte future soprattutto in materia di traffico e di servizi pubblici.

Questo invece possiamo dire: i pendolari contribuiscono indubbiamente al reddito dei residenti milanesi con i loro consumi (bar, ristoranti, tavole calde), con i loro acquisti ed ovviamente col loro lavoro ma agli stessi, però, costano in materia di servizi, soprattutto di servizi di trasporto pubblico. Se le tariffe dei mezzi pubblici coprissero la totalità dei costi questo problema non vi sarebbe ma, se tutto va bene, la copertura è del 40% e ATM con altre entrate aziendali arriva a coprire il 57% dei costi e dunque il resto è denaro pubblico: ogni pendolare per i residenti (contribuenti) è un costo economico ed in parte, oggi, causa di congestione.

Per assurdo potremmo anche dire così: inquinamento e congestione del traffico a parte, se i pendolari arrivassero sul posto di lavoro in automobile, per i milanesi – in quanto contribuenti – sarerbbe un affare: non lo è per i pendolari stessi e nemmeno per la nostra bilancia dei pagamenti alla voce petrolio.

Quanto spenda poi mediamente un pendolare per venire a Milano non è facile calcolare: di dati attendibili non ne ho trovati ma basta pensare al costo a chilometro di un’automobile media – 0,60 euro – per averne un’idea. Ma il vero problema è quanto incida il costo del trasporto privato sul reddito da lavoro dei pendolari: per i redditi più bassi supera senz’altro il 20% a prescindere dal tempo necessario e dalla stanchezza.

Il pendolarismo non è eliminabile ma solo riducibile, eppure una parte della scommessa sul rilancio di Milano si gioca su questo terreno. Se fosse possibile ridurlo riportando in città almeno una parte dei molti che l’hanno abbandonata, si otterrebbe un ulteriore risultato tutt’altro che trascurabile: l’aumento dei trasferimenti da parte dello Stato – legato al numero dei residenti – e presumibilmente un aumento di gettito dell’ICI e di TARSU.

Dunque più risorse pubbliche e, se ben amministrate, miglior qualità della vita per i vecchi milanesi e per quelli di ritorno. Ma come riportare a Milano chi se ne è andato? Come attrarre nuovi residenti, possibilmente giovani? Possibilmente con un buon reddito personale?  Come farlo ora in piena crisi economica quando Milano sta perdendo posti di lavoro e quindi aspettative di reddito come calamita per un ritorno?

Con la nostra indagine vogliamo chiederlo proprio a loro, ai pendolari.

Luca Beltrami Gadola



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