8 marzo 2011

Scrivono vari – 09.03.2011


Replica Marco Romano a Umberto Vallara – Credo di dover dire due parole, vista la vivace contestazione che mi è qui stata fatta la settimana scorsa sulla faccenda della Darsena. La prima concerne il dato di fatto: le piante di Milano – per comodità di tutti reperibili sul mio sito, www.esteticadellacitta.it – registrano l’esistenza della darsena a partire dal 1820; vent’anni prima, ai tempi del Pinchetti, la darsena non c’era. Non c’era, per la verità, neppure il naviglio pavese, fatto scavare da Napoleone: fino ad allora l’acqua del naviglio defluiva dal Ticinello, che attraversava il mercato dei cavalli e che ora passa sotto all’arco di Marengo, nel quale confluiva anche l’acqua dei navigli interni, regolata fin dal Trecento dalla conca di Viarenna.

La seconda riguarda il mio atteggiamento di supponenza. Vero, ho studiato per trent’anni il senso estetico della città europea, ho scritto libri su questo aspetto della critica d’arte fondati sull’esame di centinaia di città europee: leggerò volentieri libri – altrettanto argomentati – editi da Italia nostra e ascolterò volentieri le critiche ai miei.

Infine: chi scrive su questo giornale debbo supporre creda nella democrazia e nella partecipazione. Le consuetudini della disciplina urbanistica suggeriscono che sarebbe meglio disporre di un giardino pubblico alla distanza di quattrocento metri dalla propria casa: venga dunque chiesto a chi abita entro i quattrocento metri dalla darsena se preferiscano per i loro bambini un giardino o uno specchio d’acqua. Un giardino, ho amabilmente suggerito, allietato dal corso d’acqua giù dalla conca di Viarenna e decorato dal ponte delle sorelle Ghisini.

 

Scrive Luca Carra sulla Darsena – Ha ragione Umberto Vallara. Pietà per la Darsena. Pietà per Sant’Ambrogio, pietà per piazza Bernini, per piazza Novelli, per Largo Rio de Janeiro. Per tutte le piazze distrutte in nome degli incomprimibili diritti degli automobilisti. Pietà per gli intellettuali che esercitano la loro intelligenza contro il buon senso. Pietà per mio figlio e mia figlia e per tutti i figli di Milano, quando a Vienna, a Berlino, a Zurigo, ad Amsterdam, a New York ci chiedono “ma dove sono qui le macchine?”. Che siano tutte sottoterra, come crede Marco Romano?

In realtà là le macchine non ci sono, sono 3, 4 ogni 10 abitanti, mentre i milanesi ne hanno 6, 7: il doppio. Le automobili ci fanno male quando si muovono e inquinano, ma anche quando stanno ferme, con i loro malfermi approdi sui marciapiedi e le aiuole spartitraffico. I parcheggi sotterranei non basteranno mai per saziare questa orribile bulimia motoristica, per la quale servono cure sistemiche. Si citano i parcheggi dell’altro ieri di Barcellona, Parigi e Lione. Ma perché non si ricordano anche i nuovi quartieri completamente car – free di Vienna, Amsterdam, Tubingen e Friburgo? Dove si può acquistare casa solo se si può dimostrare di non possedere l’auto, o al massimo una per famiglia?

L’urbanistica oggi è questa, non i silos sotto le basiliche e le piazze storiche. La Darsena di Milano non sarà più quella leonardesca, come sostiene Marco Romano nel suo articolo, anche se include resti di mura spagnole e la conca di Viarenna. Ma in nome di quale feticismo storico si dovrebbe negare la tutela a un manufatto in cui – come è naturale – i segni della storia si sono depositati come tanti strati geologici, da Leonardo agli ingegneri idraulici dell’Ottocento? Non vale forse rispetto il Duomo a causa della sua “medioevale” facciata costruita nell’Ottocento? E la Scala ricostruita dopo i bombardamenti della guerra, così come la Basilica di sant’Ambrogio, che ne vogliamo fare di questi “falsi d’autore”? La storia è un tutto, cambiamento, distruzione e ricostruzione.

Lasciateci la Darsena, con la sua malcerta filologia urbana. Noi milanesi ci accontentiamo di quell’ottocentesco specchio d’acqua, così raro e così bello. Diceva Don Angelo, il parroco della Chiesa di piazza Bernini, durante l’omelia di tre anni fa, subito dopo la distruzione del giardino per farne un parcheggio che ancora non c’è: “Prendere possesso, appropriarsi, violentare sono i verbi che fanno lo scempio dell’umanità e della terra. E così ai miei occhi la mia piazza diventa un simbolo: era di tutti, quelle piante erano di tutti, quell’erba di tutti, su quella panchina andava a sedere chiunque, senza chiedere permesso a nessuno. Un segno di vita per chi beve cemento a ogni ora del giorno, un’area in cui pulsava ancora il colore delle stagioni. Sulla piazza scorreva il ritmo delle stagioni. Cambia qualcosa sull’asfalto? Ha delle stagioni? Ti perdi ad ammirarne i colori? Ma eri – qui forse è il problema – troppo piccola, piazza che ospiti la mia chiesa. E, con te, piccoli, senza raccomandazioni e protezione, i vecchi che ne godevano o i bimbi che l’attraversavano o gli uomini e le donne ancora in cerca di bellezza”.

 

Scrive Gianni Braghieri su Darsena e Santa Maria delle Grazie – Ho letto con grande stupore i due articoli di Romano e Gardella. Il primo sulla sistemazione della Darsena ha avuto, grazie all’intraprendenza dell’autore, il favore del Corriere che come altri giornali periodicamente affronta il problema del verde nella città di Milano. Mi stupisce che persone che hanno insegnato per anni nell’Università e si piccano di essere persone di cultura abbiano dimenticato alcun riferimento con la storia e l’evoluzione della città. Concordo pienamente con ciò che Gianni Beltrame e Vallara hanno scritto a proposito della Darsena replicando alle provocazioni di Romano. Penso che siano solo provocazioni quelle espresse da Marco Romano poiché si riflettono solo e comunque come l’inverso di ciò che ha sempre sostenuto e scritto.

Il valore della storia e della costruzione della città e delle piazze d’Italia sono un patrimonio inscindibile dalla costruzione della nostra identità. Tutto il mondo imita e cita le piazze d’Italia per la proporzione della bellezza e dell’architettura che trova la sua perfezione nel materiale della sua costruzione che annulla il “verde” esaltando lo spazio che per questo diventa il riflesso della civitas. Ricordo con orrore il progetto di distruzione dell’identità di Milano con la proposta di Abbado e Piano di piantar qualche migliaio di alberi negli spazi pubblici della città.

Leggo con disprezzo e con orrore quando, in periodo natalizio, risorge ogni anno la questione di piantumare piazza del Duomo. Ha ragione Gardella quando afferma che ci dovrebbe essere sempre una professionalità negli interventi di sistemazione urbana ma forse, prima di tutto ci vorrebbe maggiore sensibilità e conoscenza della storia della città e della nostra storia personale. Mancando sempre di più una decente professionalità mi auguro che l’Amministrazione non consideri i consigli di Jacopo Gardella per il suo progetto di completamento che mi sembra al limite del demenziale.

 

Scrive Laura Peroni a Jacopo Gardella – Da molti anni è chiara la volontà del Comune di costringere i cittadini a sedersi al bar. Così i marciapiedi sono ingombri di strutture accoglienti ma per accedervi bisogna pagare le consumazioni. Milano brilla per l’attenzione ad anziani e turisti affaticati. Sedersi senza pagare è impossibile. Soluzioni per progettare panchine inadatte a diventare giacigli (pare sia la scusa accampata dal Comune) ce ne sarebbero molte, ma siccome fan comodo i soldi dei bar per l’occupazione dei marciapiedi, chi è affaticato si arrangi, compri un bel macchinone e parcheggi dove gli pare, comunque rischierà raramente una multa perchè i vigili sono negli uffici e non certo per strada. Dicono che la Moratti vada spesso a Londra, forse con gli occhi bendati.

 

Scrive Vito Antonio Ayroldi a Marco Ponti – Viene da chiedersi quando si citano le tariffe europee (sempre e solo quando fa comodo, of course) se si considerano alte o basse in termini assoluti o ponderando il loro livello in funzione dei redditi. In Svezia, Germania, Danimarca i salari medi sono significativamente più elevati, incidendo anche sul costo di produzione dei servizi stessi. Allora decliniamo la proposta in modo economicamente più equo: “tariffe e salari europei per tutti” voglio proprio vedere allora, ma davvero, quante di queste fantomatiche aziende private super efficienti parteciperebbero alle gare vincendole. In Italia a oggi se ne “apprezza” spesso e volentieri il peggioramento delle condizioni contrattuali dei lavoratori e lo scadimento dei livelli di servizio. Per tacere dell’ultima sensazione del professor Ponti: la categoria sociologica dei “ricchi che non vanno in macchina”.

 

Replica Marco Ponti – Anche analizzando le tariffe in termini di PPP (Parity of Purchasing Power), le differenze rimangono rilevanti. Poi, neppure io so se le imprese private siano più efficienti di quelle pubbliche. Ma perché allora non farle provare con gare vere, e non ridicole come le attuali? Il sospetto ovviamente diviene molto forte… Concordo sullo scadimento possibile delle condizioni di lavoro, ma vorrei confrontarle con quelle dei lavoratori per i quali non funziona il voto di scambio: diciamo quelli che raccolgono i pomodori in Puglia? La protezione “verticale” del lavoro si chiama corporazione. Infine, i molti ricchi non vanno in macchina nelle aree metropolitane congestionate. Infatti i ricchi valutano moltissimo il loro tempo, molto di più dei costi monetari, di cui gli frega poco (son ricchi…). Per cui se possono metterci meno andando in metropolitana o in treno regionale lo fanno eccome. Anche perché si son potuti comprare la casa in posti ben serviti (io tra loro).

 

 



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