8 marzo 2011

arte


IL LASCITO DEI CLARK: GLI IMPRESSIONISTI E UN MUSEO RARO

Milano torna ad ospitare, a dieci anni di distanza dall’ultima volta, una vecchia passione, gli Impressionisti. E’ Palazzo Reale a presentare la prima tappa di un tour mondiale, che, partito da Williamstown, Massachusset, arriverà a toccare tante città importanti. 73 capolavori della collezione americana dello Sterling and Francine Clark Art Institute saranno esposti da qui a giugno per permettere anche al pubblico milanese di osservare opere importanti di maestri dell’Impressionismo come Monet, Manet, Sisley, Pissarro, Renoir, Degas, Caillebotte, Berthe Morisot e Mary Cassat (uniche due donne del movimento), e altri ancora.

Impressionisti ma non solo. L’esposizione comprende anche opere di artisti accademici dell’800, quali William-Adolphe Bouguereau, Jean-Léon Gérôme e Alfred Stevens, ma anche i pittori della cosiddetta “Scuola di Barbizon”, diretta precedente dell’Impressionismo, con nomi quali Corot, Rousseau e Millet. Una carrellata che ci porta però a conoscere anche alcune importanti opere di maestri del post-impressionismo, come Gauguin, con le contadine bretoni, Bonnard, con le sue ragazze colorate a campiture piatte, Daumier e, infine, il genio di Toulouse-Lautrec con i suoi ritratti pensosi e assorti.

Una mostra varia e variegata, divisa in 10 sezioni tematiche che analizzano i principali temi trattati dagli Impressionisti: la luce, l’impressione, la natura, il mare, il corpo, la città e la campagna, i viaggi, i volti, i piaceri e la società. Il percorso espositivo riunisce dunque i capolavori dei più grandi artisti francesi che, nelle loro varie evoluzioni e declinazioni, dal realismo, all’impressionismo al post-impressionismo, si sono confrontati con queste tematiche rivoluzionando il concetto di pittura e il ruolo dell’arte nella società borghese dell’epoca. Società con cui tutti gli artisti esposti si sono dovuti scontrare, spesso nel vero senso del termine.

La mostra propone quindi un percorso gradevole, una piacevole passeggiata da fare attraverso le sale, rimirando opere che ottennero successi strepitosi al Salon francese, luogo deputato per esporre opere di pittura accademica; ma anche opere, alcune davvero notevoli, che non furono nemmeno prese in considerazione ai tempi, e anzi furono assolutamente incomprese e schernite. Opere che, in realtà, portarono ad una rivoluzione totale dell’arte e del modo di dipingere, per tecnica e soggetti. Certo la mostra non brilla per avere capolavori a livello assoluto, ma questo è facilmente spiegabile raccontando la storia e il carattere di chi questa collezione mise insieme.

Robert Sterling Clark fu uno di quei personaggi fuori dalla norma, allora come oggi. Nato nel 1877 da una famiglia americana ricchissima (il nonno fu socio in affari di quel Singer delle macchine per cucire), ereditò una fortuna da parte di padre e di madre, e questo gli permise di vivere una vita agiata e lontana dalle preoccupazioni più banali. Spirito indomito, allergico alle formalità della sua famiglia, organizzò una spedizione di studio a cavallo nella Cina e ne scrisse un libro. Visti i rapporti tesi con uno dei fratelli, decise di sfuggire all’ambiente borghese di New York trasferendosi a Parigi. Tappa fondamentale questa, che gli permise, oltre che di iniziare a collezionare arte, anche di conoscere una graziosa attrice della Comédie-Française, Francine Clary, con la quale iniziò uno straordinario percorso di vita, e che sposò nel 1919.

Già dagli anni ’10 Clark iniziò a interessarsi e a comprare opere d’arte, per lo più dipinti, dei grandi maestri del Rinascimento italiano come Piero della Francesca e Ghirlandaio. Poi la sua passione s’indirizzò, quasi per caso, verso gli Impressionisti, conosciuti attraverso mercanti d’arte suoi amici. Uomo che non amava le luci della ribalta, Sterling iniziò la sua attività di collezionista quasi nell’ombra, scegliendo opere sì di grandi autori, ma che soprattutto colpivano e affascinavano lui e la moglie. Una scelta istintuale, lontana dalle logiche di mercato o dalle mode. E fu così che nel 1913 arrivò a comprare il suo primo Renoir, primo appunto, di oltre 30 quadri del maestro francese, che divenne il suo preferito in assoluto e di cui amò circondarsi esponendo queste opere nelle sue varie case. Se già dal 1913 aveva pensato ad organizzare un suo museo privato, solo a 70 anni Sterling arrivò a decidere di crearne uno suo per davvero.

Dopo una vita trascorsa tra New York, Parigi e la casa di famiglia dei Clark a Cooperstown, la coppia decise di creare un nuovo edificio in stile classico a Williamstown, Massachusset. Un’ala di questo palazzo, inaugurato nel 1955, divenne la loro casa, finché la morte non colse Sterling a poco più di un anno dalla creazione di questo museo. Un lascito importante, quello di Robert e Francine, fatto da un’incredibile collezione di dipinti ma anche di oggetti d’argento, porcellane, libri antichi, stampe e disegni. L’istituto fu corredato anche da una generosa donazione e da un’intelligente e liberale statuto che ha permesso all’istituzione di non essere solo un museo, ma anche un centro di ricerche di fama mondiale, promotore di attività e stanziamenti a favore dell’arte e delle persone che di arte si occupano. Quello stesso statuto permette che, anche oggi, la collezione venga accresciuta e integrata da nuovi acquisti, fatti sempre pensando a quei criteri di scelta che usavano Sterling e Francine e che hanno permesso l’acquisto di nove nuove opere presenti in questa mostra.

Gli impressionisti. I capolavori della Clark Collection. Palazzo Reale 2 marzo – 19 giugno 2011 Orari: lun. 14.30 – 19.30. Mar, mer, ven e dom 9.30 -19.30. Giov e sab 9.30 – 22.30 Biglietti: Intero € 9,00. Ridotto € 7,50

 

LA COMMEDIA DELLE ARTI DI SAVINIO

Prima settimana di apertura per una mostra affascinante quanto complessa. Protagonista è il grande “dilettante”, come amava definirsi lui, Alberto Savinio, al secolo Andrea De Chirico. Fratello proprio di “quel” De Chirico, Giorgio, che fu per certi versi più famoso di lui ma anche diversissimo, e proprio questo gli fece decidere di assumere il nome d’arte di Savinio. La mostra vuol essere un’antologica a tutto campo sull’arte saviniana, la più grande mai fatta da trent’anni a questa parte. Cento e più opere esposte, dipinti ma non solo, divise in cinque sezioni tematiche: mito, letteratura, architettura, oggetti e scenografie.

Sì, perché Savinio fu un artista a tutto tondo, di quelli eclettici che forse al giorno d’oggi non esistono più. Scrittore, pittore, compositore, drammaturgo, scenografo e regista teatrale. Scopo della mostra è proprio il ripercorrere tutte le attività a cui si interessò nel corso della vita, analizzando temi e modi del suo linguaggio. La mostra, curata da Vincenzo Trione (lo stesso curatore dell’epica mostra di Dalì chiusa un mese fa), propone un incipit e una fine di percorso molto particolari. La voce di Toni Servillo, infatti, accoglie il visitatore nella prima e nell’ultima sala, declamando a gran voce testi e pensieri di Savinio. Perché solo con le parole di Savinio si può capire l’arte e il Savinio-pensiero. Non sproloqui di critici, esperti ecc., ma parole vere, autentiche del maestro, che tanto lasciò scritto e che tanto si prodigò affinché la sua arte fosse spiegata per ciò che era veramente.

Difficile inquadrare Savinio a priori, in qualche corrente artistica predefinita. Certo, conobbe i Surrealisti, certo suo fratello fu esponente di spicco della Metafisica. Ma Savinio elaborò una poetica tutta sua, non convenzionale neanche per queste correnti di rottura. Apollinaire, amico dei De Chirico ed estimatore dell’opera di Savinio, disse di lui che era “grande come i geni del Rinascimento toscano”. Nato in Grecia, rimase profondamente influenzato dalla cultura classica di quella terra, tanto che dipinse a più riprese miti classici ed eroi, fino a identificarsi con Hermes, il più misterioso e ambiguo dio dell’Olimpo. Per Savinio la pittura deve essere antinaturalistica, non deve mai assomigliare alla realtà, deve essere un mezzo per guardare oltre. E’ operazione mentale, concettuale, esercizio della mente.

L’importante è l’idea, ed è per questo che ogni medium può essere valido: pittura, disegni, teatro, parole. I riferimenti culturali sono tanti, dalla monumentalità della pittura italiana degli anni ’20 e ’30, alla rivista “Valori Plastici”, all’architettura razionalista, ma è presente anche il mondo dell’infanzia, con le famose “Isole dei giocattoli”, mausolei riferiti a un tempo e a un periodo scomparsi per sempre; i miti greci, la letteratura, con omaggi all’amico Apollinaire; l’ossessione per le aperture, finestre che mettono in scena, teatralmente, potremmo dire, i soggetti dipinti; e ancora donne e uomini in abiti e interni borghesi, omaggio ai suoi familiari, ma con la faccia di galli, pellicani, struzzi e anatre, creature mutanti di un altro mondo. Concludono questo surreale percorso oggetti, abiti, mosaici e decorazioni create da Savinio nelle sue sperimentazioni, per terminare con la bellissima sezione teatrale in cui sono esposti disegni, bozzetti e maquette dei suoi spettacoli, di cui fu spesso regista e drammaturgo. “Io sono un pittore oltre la pittura”, disse. Oggi non possiamo che dargli ragione.

Alberto Savinio. La commedia dell’arte Palazzo Reale. Fino al 12 giugno.
Orari: 9.30-19.30; lun. 14.30-19.30; giov. e sab. 9.30-22.30. Biglietti: intero 9 euro, ridotto 7,5 euro.

 

TESTE COMPOSITE, RIDICOLE E REVERSIBILI. TRA LEONARDO E CARAVAGGIO, L’ARCIMBOLDO RISCOPERTO

Dopo la grande mostra di Parigi del 2007, finalmente anche Milano celebra un suo grande artista con un’esposizione importante e densa di contenuti e nuove scoperte. L’artista in questione è ovviamente Giuseppe Arcimboldi, meglio conosciuto come “l’Arcimboldo”, genio venerato dai contemporanei, dimenticato dalla critica dei secoli scorsi, riscoperto e osannato solo dai Surrealisti in poi.

Una mostra, quella allestita a Palazzo Reale, che ha come scopo quello di reinserire nel contesto milanese d’origine l’Arcimboldo e la sua cultura figurativa, che proprio qui si formò, e soprattutto cercare di capire il motivo che spinse Massimiliano II d’Asburgo a volerlo alla sua corte. Ecco perché le undici sezioni della mostra tracciano un excursus lungo ed esaustivo, da Leonardo al giovane Caravaggio, sul clima artistico che caratterizzò gli anni giovanili dell’Arcimboldo.

Si parte allora con i magnifici disegni di Leonardo e dei suoi seguaci, fondamentali per capire il punto di partenza per la creazione delle famose “teste” arcimboldiane. Fu Leonardo, infatti, studiando e disegnando volti di vecchi, personaggi tipizzati e infine volti apertamente caricaturali, che diede il via a quel genere di disegni, declinati sotto varie forme e aspetti dai suoi allievi. Melzi, Figino, Luini, Della Porta, De Predis, Lomazzo e altri ancora sono solo alcuni dei nomi presentati in mostra, con disegni che ci mostrano non solo lo studio attento dei volti ma anche la rivoluzionaria apertura alla natura e alla sua descrizione analitica iniziata sempre dal maestro fiorentino e trasmessa ai suoi allievi, come Cesare da Sesto.

Per capire il clima della Milano del ‘500, la seconda sezione introduce a quello che era il fiore all’occhiello della città in quel secolo, le arti suntuarie. Botteghe di armaioli, cristallai, ricamatori, orafi, intagliatori di gemme e tessitori, i cui prodotti erano richiestissimi dalle corti di tutta Europa. Milano capitale del lusso e delle nuove tendenze non solo ora, ma anche cinque secoli fa. Si prosegue con i primi lavori giovanili di Arcimboldo, le vetrate del Duomo realizzate sui suoi disegni, a confronto con quelle del padre Biagio, artista di una generazione precedente, ancora estraneo ai tormenti manieristici; e il grande arazzo del duomo di Como realizzato sempre su un suo cartone.

La sezione successiva è dedicata agli studi naturalistici, illustrazioni di piante e animali, con disegni autografi dell’Arcimboldo stesso, attraverso i quali si potrà capire il lato scientifico del Rinascimento e la smania di collezionismo dei signori di tutta Europa attraverso la creazioni di Wunderkammer, “camere delle meraviglie”, in cui racchiudere tutte le rarità, le stranezze e anche le mostruosità della natura. L’allestimento, curatissimo in ogni dettaglio, aiuterà il visitatore a entrare nello spirito dell’epoca, con la ricostruzione di parte di un vero studiolo cinquecentesco.

Si arriva infine a quelli che sono i dipinti più famosi e ammirati dell’Arcimboldo, le Quattro Stagioni, qui presenti nelle tre versioni esistenti, quelle di Monaco, di Vienna e del Louvre. Un’occasione unica per confrontarle e vederne gli sviluppi stilistici, con anche una nuova scoperta. Si ritiene infatti che la prima versione, quella di Monaco (1563), sia stata fatta dal giovane Arcimboldi a Milano e portata come dono di presentazione agli Asburgo nel 1562. Non più dunque un’origine d’oltralpe, ma un’ulteriore conferma che le Stagioni si situano nella tradizione milanese delle teste iniziata da Leonardo e analizzata nella prima sezione.

Oltre alle Teste, si potranno ammirare anche i 4 Elementi, mezzi busti umani ma costruiti con oggetti e animali relativi ai diversi elementi naturali: pesci e animali marini per l’Acqua, armi da fuoco, candele e acciarini per il Fuoco, una incredibile varietà di volatili per l’Aria, elefanti, alci e cinghiali per la Terra. Animali studiati nel dettaglio di cui si possono riconoscere fino a cinquanta specie diverse per opera. Arcimboldo come straordinario pittore naturalista in linea con gli interessi del secolo.

Passando attraverso i disegni degli accademici della Val di Blenio, che aprirono la tradizione della poesia dialettale milanese e ripresero le teste di Leonardo in senso fortemente caricaturale, si arriva alla “sala delle feste”, dove sono stati ricostruiti anche due esempi di apparati effimeri. L’austera Milano di san Carlo Borromeo era però anche la Milano degli sfrenati festeggiamenti del Carnevale, delle mille occasioni per inscenare balli, feste pubbliche, tornei e sfilate in costume. Arcimboldo fu un grande ideatore di eventi e costumi speciali, tanto che si pensa sia stata la sua abilità in questo campo a farlo conoscere all’imperatore; in questa sezione sono presentati alcuni disegni originali (in ogni senso) di vestiti e modelli per apparati trionfali dedicati a Massimilano II.

L’Arcimboldo ebbe un gran successo presso la corte asburgica, tanto che lo volle presso di sé anche il successore di Massimiliano, Rodolfo II, che decise di lasciarlo tornare in patria solo a 61 anni, come ci dice in modo “camuffato” l’Arcimboldo stesso in un suo bellissimo autoritratto, con la promessa però di continuare a mandargli dipinti e disegni. Eccolo dunque creare le sue opere più ammirate dai contemporanei, la Flora (ora dispersa), e il Vertunno, straordinario ritratto dell’imperatore in veste del dio, creato attraverso frutti composti insieme e osannato dagli umanisti del tempo attraverso rime, madrigali e panegirici.

Oltre che alle “teste ridicole”, il Bibliotecario e il Giurista, mezzi busti creati con gli elementi tipici del proprio mestiere, Arcimboldo dipinse anche due bellissimi esempi di “teste reversibili”, l’Ortolano e la Canestra di frutta. Se guardati a prima vista, le composizioni sembrano rappresentare solo una banale natura morta. Se rovesciati, appunto, questi due dipinti ci mostrano nuovamente due ritratti, due volti, creati con un perfetto assemblaggio di ortaggi e frutta. Un divertissement pregiato e ricercato per l’epoca.

Si arriva infine all’ultima opera di Arcimboldo, tra l’altro di recente scoperta e attribuzione: la Testa delle quattro stagioni dell’anno, un mix di tutti gli elementi naturali già usati in precedenza, per andare a creare forse la sua opera somma. Chissà che il giovane Caravaggio, che abitava a poca distanza dal grande artista, non abbia visto le sue nature morte assolutamente innovative e moderne, e sia partito proprio da lì per ripensare, a suo modo, questo tema.

Insomma una mostra ben curata, scientificamente innovativa, che anche grazie all’allestimento assolutamente suggestivo, permetterà di comprendere appieno e sotto nuova luce un’artista per molti secoli ingiustamente dimenticato.

Arcimboldo. Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio. Palazzo Reale, 10 febbraio – 22 maggio 2011
Orari: tutti i giorni 9.30-19.30, Lunedì 14.30-19.30, Giovedì e Sabato 9.30-22.30.
Costi: Intero € 9,00. Ridotto € 7,50

 

TERRE VULNERABILI ATTO SECONDO. “INTERROGARE CIÒ CHE HA SMESSO PER SEMPRE DI STUPIRCI”.

All’Hangar Bicocca è iniziata la seconda fase di “Terre vulnerabili”. Un progetto site specific che prevede l’allestimento di quattro mostre diverse nell’arco di sette mesi, legate tra loro dal tema specifico della vulnerabilità. Un’idea innovativa e interessante per un progetto mai stabile ma in continuo divenire e cambiamento, curato da Chiara Bertola con la collaborazione di Andrea Lissoni. Un progetto sperimentale in quattro fasi, come quelle lunari, che arriverà ad esporre i lavori di trenta artisti internazionali, aggiunti gradualmente di mostra in mostra.

Iniziato il 21 ottobre con la mostra “Le soluzioni vere arrivano dal basso“; continua con questa esposizione, inaugurata il 2 febbraio, dal titolo “Interrogare ciò che ha smesso per sempre di stupirci“; per poi arrivare a quelle dei prossimi mesi, con “Alcuni camminano nella pioggia altri semplicemente si bagnano“, marzo 2011, e “L’anello più debole della catena è anche il più forte perché può romperla“, aprile 2011.

Un lavoro sperimentale anche per il modo in cui è stato ideato il progetto. Dal settembre 2009 infatti, la curatrice e i vari artisti interpellati si sono più volte incontrati per discutere, riflettere, condividere idee e progetti per creare delle opere adatte al tema e in dialogo tra loro. Ecco perché il risultato non è mai definitivo. Gli artisti infatti si riservano di modificare, trasformare, spostare, aggiungere e correggere il proprio lavoro, per accordarlo agli altri e al pubblico. Il progetto è in evoluzione continua, “germinativo e organico”, secondo le parole dei curatori, per permettere al pubblico e agli artisti di continuare a prendersene cura, crescerlo e nutrirlo.

Otto gli artisti presenti in questa seconda esposizione, che vanno ad aggiungersi ai quindici della prima esposizione: Bruna Esposito, Yona Friedman, Carlos Garaicoa, Invernomuto, Kimsooja, Margherita Morgantin, Adele Prosdocimi, Remo Salvadori, Nico Vascellari. Otto lavori diversissimi per forma, materiali, dimensioni, in cui viene declinato e sviluppato in modo personale il concetto di vulnerabilità. Perché è stato deciso di riflettere proprio su questo tema? La vulnerabilità non è una caratteristica solo dei materiali con cui sono state fatte le opere (fogli di carta, candele, cartone, cera, suoni, luci, fili, immagini proiettate), ma anche una capacità empatica di riconoscersi come parte di un insieme, di una comunità in cui bisogna aver rispetto per gli uomini e l’ambiente. Vulnerabilità come presa di coscienza del nostro essere fragili, vulnerabili appunto, e della necessità di una comprensione più profonda degli altri e di sé.

Ma è anche vulnerabilità della terra, del nostro mondo, visto come risorsa limitata che in breve tempo si esaurirà. Infine la vulnerabilità è intesa anche come dissolvenza dei corpi e dei limiti. In un mondo ormai caratterizzato dal mescolarsi di uomini, frontiere, culture e lingue, la vulnerabilità diventa non più una debolezza, qualcosa di negativo, ma è un’arma per assorbire e far entrare in noi l’altro, la diversità. E’ disposizione mentale ad arricchirci.

Ed ecco allora aggiungersi alle opere già presenti per la prima mostra, per esempio, la grotta del trio di Invernomuto, una copia della grotta di Lourdes ma fatta di cera, destinata a dissolversi nel tempo della mostra sotto le lampade alogene. Si incontra poi il poetico lavoro di Adele Prosdocimi, tappeti di feltro con ricamate le riflessioni scaturite dai vari incontri tra gli artisti e i curatori; un video, ma non un documentario, sulle emissioni di radiazioni solari di Margherita Morgantin, per studiare e curare lo stato di salute del nostro pianeta; per arrivare poi all’omaggio ai morti di Bruna Esposito, un angolo votivo con tanto di ceri accesi e malinconica musica in sottofondo, opera piccola e solitaria, “dedicata alla paura di morire”.

Insomma un coagulo di esperienze e punti di vista diversi che vanno a riflettere su un argomento spinoso e forse un po’ tabù. E’ sempre difficile parlare delle nostre debolezze e ammettere di essere, nel nostro intimo, vulnerabili.

Terre vulnerabili. 2/4 Interrogare ciò che ha smesso per sempre di stupirci. Dal 3 febbraio, gli altri quarti il 10 marzo e il 13 aprile HangarBicocca, Via Chiese 2 (traversa V.le Sarca) Orario: tutti i giorni dalle 11.00 alle 19.00, giovedì dalle 14.30 fino alle 22.00, lunedì chiuso Ingresso: intero 8 euro, ridotto 6 euro

 

 

questa rubrica è a cura di Virginia Colombo

rubriche@arcipelagomilano.org



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