SANCTUM 3D

di Alister Grierson [USA, Australia, 2011, 108′]

con: Richard Roxburgh, Ioan Gruffudd, Rhys Wakefield, Alice Parkinson, Dan Wyllie, Christopher Baker, Nicole Downs, Allison Cratchley

Qualche tempo fa Orson Welles, parlando di cinema, si lasciò andare a uno sguardo verso il futuro: «più avanza il progresso tecnico, più lo spirito creativo va in declino. E io temo che l´elettronica finirà per aiutare solo i film di terza scelta», disse il regista di Quarto potere. Noi, il «progresso tecnico» abbiamo avuto modo di toccarlo con mano (anzi, con occhio) proprio in questi anni in cui il cinema sembra spingersi all’estremo dell’esperienza sensoriale. O meglio, non il Cinema, ma un certo cinema. L’esplosione, in questo senso, si è avuta un paio di anni fa con l’uscita nelle sale di Avatar [USA, 2009, 162′] di James Cameron. Siamo noi allora – nel pieno di questa “rivoluzione” in 3D – a dover comprendere se davvero, come profetizzato da Welles, «lo spirito creativo va in declino».

La sensazione, dopo aver visto Avatar, è quella di un orgasmo grafico e visuale, ma con forza narrativa assai limitata. La storia è vecchia, anzi già vista e sentita. Se il Cinema è costruttore di mondi verosimili, in quel mondo c’eravamo già stati. In Sanctum 3D [USA, Australia, 2011, 108′] di Alister Grierson, Cameron è ancora protagonista questa volta in veste di produttore esecutivo; inoltre, presta a Grierson il Cameron/Pace Fusion 3D Camera system: un impianto di ripresa stereoscopica digitale HD giù utilizzato per Avatar. Nel “mondo altro” che il regista australiano costruisce in Sanctum, c’è molto Cameron.

E per noi, in sala, ci sono ancora quegli occhialini che dovrebbero consentire di fonderci con le immagini dello schermo. Il risultato è un miscuglio tra thriller e avventura esotica (Avatar?) in cui un gruppo di speleologi si perde nelle caverne sottomarine di Esa’ala, in Papua Nuova Guinea, addentrandosi in profondità inesplorate e pericolose. Nelle strette inquadrature dei cunicoli della caverna, le immagini in tre dimensioni ci sbattono in faccia senza però emozionarci troppo. A questo si aggiunge una sceneggiatura un po’ raccapezzata con dialoghi che non aiutano a dare spessore alla storia. «A nessuno nel mondo reale frega una cazzo di questa fottutissima roccia», grida Josh (Rhys Wakefield) contro il padre Frank (Richard Roxburgh); noi, in sala, in questo momento ci sentiamo profondamente chiamati in causa.

In breve, non è detto che un “orgasmo grafico e visuale” basti per emozionare lo spettatore cinematografico. Il Cinema ha armi ben più affilate: uno spirito creativo molto più ingombrante. Detto ciò, non voglio sferrare un’arringa contro gli effetti speciali o la nuova tecnologia 3D, ma soltanto sottolineare che questi aspetti – da soli – non bastano per dar vita a un buon film. D’altronde, gli effetti visivi li troviamo anche simulati nei luna park, slegati da qualsiasi logica di creatività. Al contrario, una buona sceneggiatura e uno stile registico classico possono – da soli – suscitare emozioni per cui non servono occhialini speciali (pensiamo al cinema di Clint Eastwood, per citare un esempio). Inoltre, ripensando a Quarto potere di Orson Welles (al suo immenso spirito creativo), e alla profondità di campo che il regista riesce a rendere nel 1941, non ci sono dubbi: il cinema è già in tre dimensioni, senza necessità di esagerazioni tecnologiche.

Sanctum 3D pare quasi un esperimento di Cameron per testare la resa dei suoi strumenti tecnologici in ambienti sottomarini, forse in vista degli annunciati sequel di Avatar. Allora, questa volta, non è lo schermo del cinema che inganna lo spettatore con la sua splendida menzogna, ma è il produttore che ci inganna portandoci al cinema per farci vivere un’esperienza da luna park.

Paolo Schipani

In sala: Milano The Space, UCI Cinemas: Bicocca, Certosa; Rozzano: The Space Cinema, UCI Cinemas: MilanoFiori, Pioltello, Lissone; Skyline Multiplex, Le Giraffe Multisala, Vimercate:The Space Cinema Le Torri Bianche;

 

127 ORE

di Danny Boyle [USA, Gran Bretagna, 2010, 90′]

con James Franco, Kate Burton, Kate Mara, John Lawrence, Koleman Stinger.

“Cosa saresti disposto a fare per liberarti?”Avrebbe sussurrato l’Enigmista alle orecchie del giovane escursionista, Aron Ralston, scivolato in un crepaccio e rimasto con il braccio intrappolato da un masso. Danny Boyle, il regista di 127 ore, non ha scelto una figura umana seppur diabolica come giudice del destino di questo ragazzo impavido e curioso. È la natura, questo elemento ormai sconosciuto nelle nostre metropoli piene di smog e di cemento, a rappresentare il fato sotto le spoglie di un’immobile pietra. Il carceriere che aspettava Aron, secondo sua stessa intuizione, fin dal momento della sua creazione.

Non c’è furore contro il destino se le proprie scelte sono consapevoli. Aron, ancora bambino, ha ammirato la luce sanguigna dei tramonti seduto su questi canyon a pochi centimetri dalla rassicurante figura di suo padre. Questi luoghi sono una parte di lui. Non è certo contro di loro che il ragazzo sfoga le sue frustrazioni. L’egoismo e l’individualismo che spesso lo hanno contraddistinto sono invece i peccati da cui redimersi. Pochi secondi sarebbero bastati per soddisfare le richieste della madre desiderosa di notizie sulla meta dell’avventuroso weekend del figlio. Così come profetiche riecheggiano le parole dell’ultima ragazza di Aron che, come Cassandra, lo avverte causticamente: “tu resterai da solo”. Un monito difficile da dimenticare se ti trovi a decine di chilometri dall’essere umano più vicino in un buco di un metro.

Danny Boyle sembra orientato verso un cinema sempre più statico scenicamente ma movimentato emotivamente ed emozionalmente. La sedia del programma televisivo “The millionaire” e la fessura del canyon tengono bloccati fisicamente i due protagonisti. Sono le loro menti, i loro ricordi, i dubbi sul futuro a muovere il film grazie a una regia che sfrutta ogni espediente stilistico per immergere lo spettatore nella vita del protagonista.

La pellicola è rimasta immeritatamente a mani vuote nonostante le 6 nominations alla 83° edizione degli Oscar. Forse un contrappeso allo sfavillante bottino di 8 statuette raccolto dal regista con Slumdog millionaire del 2009. La sfortuna di una concorrenza di livello eccelso. Soprattutto per James Franco, autore di uno stupefacente sforzo interpretativo arricchito dalla sconvolgente visione dei filmati originali dell’escursionista.

Marco Santarpia

In sala a Milano: Apollo Spaziocinema, Plinius Multisala, UCI Cinemas Bicocca.

 

questa rubrica è curata da Marco Santarpia e Paolo Schipani

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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