15 febbraio 2011

arte


 TESTE COMPOSITE, RIDICOLE E REVERSIBILI. TRA LEONARDO E CARAVAGGIO, L’ARCIMBOLDO RISCOPERTO  

     

Vertunno (Ritratto di Rodolfo II), 1590 olio su tavola Il bibliotecario, 1566, olio su tela

Dopo la grande mostra di Parigi del 2007, finalmente anche Milano celebra un suo grande artista con un’esposizione importante e densa di contenuti e nuove scoperte. L’artista in questione è ovviamente Giuseppe Arcimboldi, meglio conosciuto come “l’Arcimboldo”, genio venerato dai contemporanei, dimenticato dalla critica dei secoli scorsi, riscoperto e osannato solo dai Surrealisti in poi.
 

Una mostra, quella allestita a Palazzo Reale, che ha come scopo quello di reinserire nel contesto milanese d’origine l’Arcimboldo e la sua cultura figurativa, che proprio qui si formò, e soprattutto cercare di capire il motivo che spinse Massimiliano II d’Asburgo a volerlo alla sua corte. Ecco perché le undici sezioni della mostra tracciano un excursus lungo ed esaustivo, da Leonardo al giovane Caravaggio, sul clima artistico che caratterizzò gli anni giovanili dell’Arcimboldo.
 

Si parte allora con i magnifici disegni di Leonardo e dei suoi seguaci, fondamentali per capire il punto di partenza per la creazione delle famose “teste” arcimboldiane. Fu Leonardo, infatti, studiando e disegnando volti di vecchi, personaggi tipizzati e infine volti apertamente caricaturali, che diede il via a quel genere di disegni, declinati sotto varie forme e aspetti dai suoi allievi. Melzi, Figino, Luini, Della Porta, De Predis, Lomazzo e altri ancora sono solo alcuni dei nomi presentati in mostra, con disegni che ci mostrano non solo lo studio attento dei volti ma anche la rivoluzionaria apertura alla natura e alla sua descrizione analitica iniziata sempre dal maestro fiorentino e trasmessa ai suoi allievi, come Cesare da Sesto.

 

Per capire il clima della Milano del ‘500, la seconda sezione introduce a quello che era il fiore all’occhiello della città in quel secolo, le arti suntuarie. Botteghe di armaioli, cristallai, ricamatori, orafi, intagliatori di gemme e tessitori, i cui prodotti erano richiestissimi dalle corti di tutta Europa. Milano capitale del lusso e delle nuove tendenze non solo ora, ma anche cinque secoli fa. Si prosegue con i primi lavori giovanili di Arcimboldo, le vetrate del Duomo realizzate sui suoi disegni, a confronto con quelle del padre Biagio, artista di una generazione precedente, ancora estraneo ai tormenti manieristici; e il grande arazzo del duomo di Como realizzato sempre su un suo cartone.
 

 La sezione successiva è dedicata agli studi naturalistici, illustrazioni di piante e animali, con disegni autografi dell’Arcimboldo stesso, attraverso i quali si potrà capire il lato scientifico del Rinascimento e la smania di collezionismo dei signori di tutta Europa attraverso la creazioni di Wunderkammer, “camere delle meraviglie”, in cui racchiudere tutte le rarità, le stranezze e anche le mostruosità della natura. L’allestimento, curatissimo in ogni dettaglio, aiuterà il visitatore a entrare nello spirito dell’epoca, con la ricostruzione di parte di un vero studiolo cinquecentesco.
 

 Si arriva infine a quelli che sono i dipinti più famosi e ammirati dell’Arcimboldo, le Quattro Stagioni, qui presenti nelle tre versioni esistenti, quelle di Monaco, di Vienna e del Louvre. Un’occasione unica per confrontarle e vederne gli sviluppi stilistici, con anche una nuova scoperta. Si ritiene infatti che la prima versione, quella di Monaco (1563), sia stata fatta dal giovane Arcimboldi a Milano e portata come dono di presentazione agli Asburgo nel 1562. Non più dunque un’origine d’oltralpe, ma un’ulteriore conferma che le Stagioni si situano nella tradizione milanese delle teste iniziata da Leonardo e analizzata nella prima sezione.
 

 Oltre alle Teste, si potranno ammirare anche i Quattro Elementi, mezzi busti umani ma costruiti con oggetti e animali relativi ai diversi elementi naturali: pesci e animali marini per l’Acqua, armi da fuoco, candele e acciarini per il Fuoco, una incredibile varietà di volatili per l’Aria, elefanti, alci e cinghiali per la Terra. Animali studiati nel dettaglio di cui si possono riconoscere fino a cinquanta specie diverse per opera. Arcimboldo come straordinario pittore naturalista in linea con gli interessi del secolo.
 

 Passando attraverso i disegni degli accademici della Val di Blenio, che aprirono la tradizione della poesia dialettale milanese e ripresero le teste di Leonardo in senso fortemente caricaturale, si arriva alla “sala delle feste”, dove sono stati ricostruiti anche due esempi di apparati effimeri. L’austera Milano di san Carlo Borromeo era però anche la Milano degli sfrenati festeggiamenti del Carnevale, delle mille occasioni per inscenare balli, feste pubbliche, tornei e sfilate in costume. Arcimboldo fu un grande ideatore di eventi e costumi speciali, tanto che si pensa sia stata la sua abilità in questo campo a farlo conoscere all’imperatore; in questa sezione sono presentati alcuni disegni originali (in ogni senso) di vestiti e modelli per apparati trionfali dedicati a Massimilano II.
 

 L’Arcimboldo ebbe un gran successo presso la corte asburgica, tanto che lo volle presso di sé anche il successore di Massimiliano, Rodolfo II, che decise di lasciarlo tornare in patria solo a 61 anni, come ci dice in modo “camuffato” l’Arcimboldo stesso in un suo bellissimo autoritratto, con la promessa però di continuare a mandargli dipinti e disegni. Eccolo dunque creare le sue opere più ammirate dai contemporanei, la Flora (ora dispersa), e il Vertunno, straordinario ritratto dell’imperatore in veste del dio, creato attraverso frutti composti insieme e osannato dagli umanisti del tempo attraverso rime, madrigali e panegirici.
 

 Oltre che alle “teste ridicole”, il Bibliotecario e il Giurista, mezzi busti creati con gli elementi tipici del proprio mestiere, Arcimboldo dipinse anche due bellissimi esempi di “teste reversibili”, l’Ortolano e la Canestra di frutta. Se guardati a prima vista, le composizioni sembrano rappresentare solo una banale natura morta. Se rovesciati, appunto, questi due dipinti ci mostrano nuovamente due ritratti, due volti, creati con un perfetto assemblaggio di ortaggi e frutta. Un divertissement pregiato e ricercato per l’epoca.
 

 Si arriva infine all’ultima opera di Arcimboldo, tra l’altro di recente scoperta e attribuzione: la Testa delle quattro stagioni dell’anno, un mix di tutti gli elementi naturali già usati in precedenza, per andare a creare forse la sua opera somma. Chissà che il giovane Caravaggio, che abitava a poca distanza dal grande artista, non abbia visto le sue nature morte assolutamente innovative e moderne, e sia partito proprio da lì per ripensare, a suo modo, questo tema.
 

Insomma una mostra ben curata, scientificamente innovativa, che anche grazie all’allestimento assolutamente suggestivo, permetterà di comprendere appieno e sotto nuova luce un’artista per molti secoli ingiustamente dimenticato.
   

 

Il bibliotecario, 1566, olio su tela

 Arcimboldo. Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio. Palazzo Reale, 10 febbraio – 22 maggio 2011 Orari: tutti i giorni 9.30-19.30, Lunedì 14.30-19.30, Giovedì e Sabato 9.30-22.30. Costi: Intero € 9,00. Ridotto € 7,50
     

TERRE VULNERABILI ATTO SECONDO. “INTERROGARE CIÒ CHE HA SMESSO PER SEMPRE DI STUPIRCI”.
 

All’Hangar Bicocca è iniziata la seconda fase di “Terre vulnerabili”. Un progetto site specific che prevede l’allestimento di quattro mostre diverse nell’arco di sette mesi, legate tra loro dal tema specifico della vulnerabilità. Un’idea innovativa e interessante per un progetto mai stabile ma in continuo divenire e cambiamento, curato da Chiara Bertola con la collaborazione di Andrea Lissoni. Un progetto sperimentale in quattro fasi, come quelle lunari, che arriverà ad esporre i lavori di trenta artisti internazionali, aggiunti gradualmente di mostra in mostra.
 

Iniziato il 21 ottobre con la mostra “Le soluzioni vere arrivano dal basso“; continua con questa esposizione, inaugurata il 2 febbraio, dal titolo “Interrogare ciò che ha smesso per sempre di stupirci“; per poi arrivare a quelle dei prossimi mesi, con “Alcuni camminano nella pioggia altri semplicemente si bagnano“, marzo 2011, e “L’anello più debole della catena è anche il più forte perché può romperla“, aprile 2011.
 

Un lavoro sperimentale anche per il modo in cui è stato ideato il progetto. Dal settembre 2009 infatti, la curatrice e i vari artisti interpellati si sono più volte incontrati per discutere, riflettere, condividere idee e progetti per creare delle opere adatte al tema e in dialogo tra loro. Ecco perché il risultato non è mai definitivo. Gli artisti infatti si riservano di modificare, trasformare, spostare, aggiungere e correggere il proprio lavoro, per accordarlo agli altri e al pubblico. Il progetto è in evoluzione continua, “germinativo e organico”, secondo le parole dei curatori, per permettere al pubblico e agli artisti di continuare a prendersene cura, crescerlo e nutrirlo.
  

Otto gli artisti presenti in questa seconda esposizione, che vanno ad aggiungersi ai quindici della prima esposizione: Bruna Esposito, Yona Friedman, Carlos Garaicoa, Invernomuto, Kimsooja, Margherita Morgantin, Adele Prosdocimi, Remo Salvadori, Nico Vascellari. Otto lavori diversissimi per forma, materiali, dimensioni, in cui viene declinato e sviluppato in modo personale il concetto di vulnerabilità. Perché è stato deciso di riflettere proprio su questo tema? La vulnerabilità non è una caratteristica solo dei materiali con cui sono state fatte le opere (fogli di carta, candele, cartone, cera, suoni, luci, fili, immagini proiettate), ma anche una capacità empatica di riconoscersi come parte di un insieme, di una comunità in cui bisogna aver rispetto per gli uomini e l’ambiente. Vulnerabilità come presa di coscienza del nostro essere fragili, vulnerabili appunto, e della necessità di una comprensione più profonda degli altri e di sé.
   

Ma è anche vulnerabilità della terra, del nostro mondo, visto come risorsa limitata che in breve tempo si esaurirà. Infine la vulnerabilità è intesa anche come dissolvenza dei corpi e dei limiti. In un mondo ormai caratterizzato dal mescolarsi di uomini, frontiere, culture e lingue, la vulnerabilità diventa non più una debolezza, qualcosa di negativo, ma è un’arma per assorbire e far entrare in noi l’altro, la diversità. E’ disposizione mentale ad arricchirci.
   

Ed ecco allora aggiungersi alle opere già presenti per la prima mostra, per esempio, la grotta del trio di Invernomuto, una copia della grotta di Lourdes ma fatta di cera, destinata a dissolversi nel tempo della mostra sotto le lampade alogene. Si incontra poi il poetico lavoro di Adele Prosdocimi, tappeti di feltro con ricamate le riflessioni scaturite dai vari incontri tra gli artisti e i curatori; un video, ma non un documentario, sulle emissioni di radiazioni solari di Margherita Morgantin, per studiare e curare lo stato di salute del nostro pianeta; per arrivare poi all’omaggio ai morti di Bruna Esposito, un angolo votivo con tanto di ceri accesi e malinconica musica in sottofondo, opera piccola e solitaria, “dedicata alla paura di morire”.
   

Insomma un coagulo di esperienze e punti di vista diversi che vanno a riflettere su un argomento spinoso e forse un po’ tabù. E’ sempre difficile parlare delle nostre debolezze e ammettere di essere, nel nostro intimo, vulnerabili.

Terre vulnerabili. 2/4 Interrogare ciò che ha smesso per sempre di stupirci. dal 3 febbraio, gli altri quarti il 10 marzo e il 13 aprile HangarBicocca, Via Chiese 2 (traversa V.le Sarca) Orario: tutti i giorni dalle 11.00 alle 19.00, giovedì dalle 14.30 fino alle 22.00, lunedì chiuso Ingresso: intero 8 euro, ridotto 6 euro
  

ADDIO AD OPPENHEIM, RE DELLA LAND ART
   

Il 22 gennaio scorso si è spento all’età di 73 anni Dennis Oppenheim, artista americano tra i principali esponenti della Land Art. Se ne è andato durante la notte, a causa di un tumore al fegato, mentre si trovava a New York. Oltre che esponente di spicco dell’arte paesaggistica, Oppenheim fu anche un artista concettuale noto per la sua attività nel campo della Performance art, della Body Art e della Video art. Nato nel 1938 a Electric City, Washington, negli anni Cinquanta frequenta l’università presso la California College of Arts and Crafts. Dopo aver conseguito nel 1965 il Master in Fine Arts alla Stanford University a Palo Alto, nel 1967 si trasferisce a New York, centro nevralgico della nuova arte. Lì lavora come insegnante in una scuola di Smithtown, Long Island.
   

E’ dell’anno successivo la sua prima esposizione personale. Oppenheim fu tra i primi a utilizzare la performance e la videoarte come modalità di espressione artistica. Il suo lavoro fu sempre caratterizzato da una ricerca continua di nuovi mezzi e materiali, che lo portarono a confrontarsi con diverse tecniche e situazioni, dalla scultura, alla land art, alla fotografia alle istallazioni video. Per creare la sua prima opera, del 1967, assolutamente sperimentale e di rottura, fu ispirato dalle orme lasciate sulla neve dalla sua classe di studenti intorno a un campo da calcio.
   

Questi segni suggerirono a Oppenheim l’idea per la realizzazione di ”Earthwork: il buco del terreno”. Un’opera costruita per assenza. Lo spazio è infatti uno spazio negativo, poiché l’oggetto non c’è, ma allo stesso tempo vi sono contenuti il senso di mobilità e il senso di inamovibilità delle impronte stesse. Un’azione che è solo apparentemente semplice, ma che in realtà già manifesta la profonda radicalità dell’orientamento alla base degli Earthworks. Lavori creati soprattutto su campi innevati e fiumi gelati in cui l’azione, il tracciato di solchi o cerchi concentrici, aveva un carattere del tutto effimero, data la “non consistenza” di questi soggetti. Ecco perché nei suoi lavori le forme transitano da una situazione all’altra, da un materiale all’altro, in una metamorfosi continua che mette in discussione le regole costituite dell’arte, dell’architettura e del design. Come nel caso dei bellissimi “Device To Root Out Evil“, 1997 e “Journey Home“, del 2009.
   

Artista controverso, Oppenheim si è dedicato soprattutto alla realizzazione di grandi installazioni in spazi pubblici nelle principali città del mondo, alcune di queste opere addirittura caratterizzate dall’attivazione tramite i movimenti del pubblico stesso. Una poetica che si esplicita nella presa di possesso di uno spazio che, dopo interventi e modifiche, viene riproposto come opera d’arte sotto forma di fotografia o di installazione. Celebrato dai più grandi musei del mondo con mostre e retrospettive, Oppenheim ha partecipato nel 1997 alla Biennale di Venezia. I suoi ultimi lavori risalgono al 2010, due opere pubbliche fatte di luci per la città di Toronto (Still Dancing), e per l’aeroporto di Houston, in Texas (Radiant Fountains). Due giochi di luce e forme che fanno sognare. Il mondo dell’arte ha perso un grande artista.
   

CHI PARTE E CHI ARRIVA. ANTICIPAZIONI DI UNA PRIMAVERA INTERESSANTE
 

Momento di considerazioni e anticipazioni sulla situazione delle mostre milanesi, presenti e future. Entriamo infatti nell’ultima settimana di apertura di diverse mostre, tra cui quella che è letteralmente stata il fenomeno dell’anno, la mostra di Salvador Dalì. Tante parole sono già state dette per descrivere questo artista e questa mostra, dai risultati incredibili, ma che appunto per questo merita che si spendano ancora due parole di “commiato”. Una mostra per cui sì, ci si aspettava un discreto successo di pubblico visto il nome assolutamente famoso e di richiamo di Salvador Dalì, ma che ha lo stesso stupito tutti per lo straordinario afflusso di visitatori. Non c’è stato giorno, o quasi, in cui la fila dei visitatori non è arrivata almeno fino alla piazzetta reale. Se non direttamente in piazza Duomo.
   

Coda sotto la pioggia, il nevischio, il freddo pungente, ore e ore per aspettare di vedere quella che è stato il successo dell’anno. Peccato che, una volta entrati dopo questa gran fatica, nelle sale, suggestive ma troppo anguste, si facesse fatica a muoversi e bisognasse di nuovo “mettersi in coda” per arrivare a vedere da vicino i quadri del pittore spagnolo. Tutto questo però non ha fermato i temerari visitatori che hanno affollato le sale della mostra a tutte le ore, usufruendo anche delle aperture straordinarie di Palazzo Reale in queste ultime settimane. Non senza però risparmiare critiche alla gestione degli spazi e degli ingressi. Per motivi di organizzazione, purtroppo questa mostra non sarà prorogata, per cui chi ancora si fosse perso questo evento, che resterà nella memoria (soprattutto di chi ci ha lavorato ogni giorno spesso in ardue condizioni), deve affrettarsi perché ancora pochi giorni lo separano dalla chiusura di questa rassegna sull’artista catalano.
   

Altrettanto importanti mostre in chiusura sono quella sulla scultura italiana del XXI secolo alla Fondazione Pomodoro, originale, divertente e molto rappresentativa, non finiremo mai di dirlo; quella sull’arte islamica al piano terra di Palazzo Reale, di qualità, interessante, specialistica, ma forse proprio per questi motivi non apprezzata fino in fondo dal gran pubblico; in chiusura anche il Capolavoro per Milano del Museo Diocesano, la “Natività” di Filippo Lippi, che a breve tornerà a Prato. Ma per tante mostre che se ne vanno, ne sono in previsioni altrettante nuove, tra originalità e vecchie glorie sempreverdi. Tre le nuove esposizioni che saranno ospitate a Palazzo Reale a partire dal mese di febbraio in poi.
   

La principale, quella su cui ci si aspetta un successo pari almeno alla metà di quello di Dalì, è la mostra sull’Arcimboldo. Un nome conosciuto per chi si intende d’arte, ma ancor più famoso, forse in modo inconsapevole, tra il grande pubblico, per i suoi quadri più noti: le celeberrime teste delle Quattro stagioni, della Flora e del Vertumno composti da frutta, verdura e fiori. Nature morte sotto forma di ritratti. Una mostra importante dal punto di vista delle opere esposte, dei nomi presenti e anche scientificamente valida. Lo scopo è quello di ridare peso agli anni milanesi dell’Arcimboldo, che tanto tempo invece lavorò a Praga e Vienna, per capirne maestri, retroscena e sviluppi. Non solo Arcimboldo dunque, ma una grande carrellata dai leonardeschi a Caravaggio per contestualizzare il suo operato.
   

Altra mostra nuova e decisamente originale sarà quella su “Alberto Savinio. La commedia dell’arte”. Fratello del ben più celebre Giorgio De Chirico, già simbolo di casa Boschi-Di Stefano, questa mostra ce lo fa conoscere meglio presentandocelo come un personaggio poliedrico e versatile, che con il suo lavoro ebbe a che fare non solo con l’arte in senso stretto, ma anche con letteratura, teatro, musica, architettura e mitologia. Un gradito ritorno è quello degli Impressionisti, a Milano da marzo, con una mostra itinerante, a più di dieci anni dall’ultima esposizione. Saranno esposti moltissimi capolavori della Clark Collection di Boston, e Milano è stata scelta proprio come prima tappa del loro tour europeo. Gli Impressionisti, in ogni loro versione, tema e accezione, hanno sempre attirato moltissimi visitatori, è ragionevole pensare che anche questa volta avranno un grande successo di pubblico.
   

Ultima mostra veramente rilevante è quella “intorno” a Caravaggio, “Gli occhi di Caravaggio”, presso il Museo Diocesano in data da definirsi, tra la metà di febbraio e quella di marzo. Una rassegna non su Caravaggio, si badi bene, ma sul periodo, ancora un po’ incerto, della sua formazione e dei suoi primi viaggi. Tanti nomi importanti per capire a chi, dove e come il grande maestro si ispirò agli inizi della sua attività, per poi creare il suo stile unico e inconfondibile. Insomma la primavera, che a livello espositivo è sempre stata un po’ in sordina, quest’anno si farà sentire in modo forte con tante nuove proposte diversissime tra loro, per accontentare tutti i gusti. Dai “capricci” dell’Arcimboldo (che faranno impazzire i bambini), agli evergreen dell’Impressionismo, alla pittura magica di Savinio, per finire con uno dei più grandi, Caravaggio.
   

Arcimboldo. Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio. Palazzo Reale, dal 10 febbraio al 22 maggio. Savinio. La commedia dell’arte. Palazzo Reale, dal 25 febbraio al 12 giugno. Gli Impressionisti. I capolavori della Clark Collection. Palazzo Reale, dal 2 marzo al 19 giugno. Gli occhi di Caravaggio. Museo Diocesano.
   

BENVENUTO, NOVECENTO!
  

Dopo tre anni di lavori, progetti e polemiche si è finalmente inaugurato il Museo del Novecento nello storico palazzo dell’Arengario, completamente rinnovato, con oltre 5 mila metri quadrati di spazio per ospitare le oltre 400 opere delle Civiche Raccolte milanesi. Grande evento mondano è stata l’inaugurazione stessa, avvenuta il 6 dicembre, alla quale hanno partecipato volti noti della cultura e della politica milanese. Un progetto innovativo e futuristico, più un’istallazione che un’architettura, come racconta Italo Rota, architetto responsabile del progetto. Grandi vetrate, scalone a spirale che ricorda il Guggenheim di New York, nicchie e passerelle che collegano l’Arengario col primo piano di Palazzo Reale.
   

A coronamento di questo edificio l’enorme Neon di Lucio Fontana, progettato nel 1951 per la IX Triennale, ed esposto in una terrazza vetrata che domina la piazza del Duomo e diviene faro e simbolo del museo stesso. E poi un ristorante nella Torre, un bookshop ben fornito e spazi per la didattica, oltre che luoghi in cui è possibile sostare. Un museo come non ce n’erano mai stati a Milano, ma che oltre ai pregi inconfutabili, tra cui quello di raccogliere in un solo luogo pezzi fondamentali della storia artistica milanese ma non solo, si porta dietro, quasi inevitabilmente, uno stuolo di polemiche. A cominciare proprio dall’inizio del percorso espositivo. Dopo un ingresso avveniristico, con armadietti luminosi e monitor appesi al soffitto, si sale l’enorme rampa spiraliforme che conduce ai vari piani del museo.
   

Ma c’è un primo “problema”. Sulla sinistra, quando meno te lo aspetti, ecco comparire l’enorme tela del Quarto stato di Pellizza da Volpedo, prelevata dalla sede storica della Galleria d’arte moderna e messa in una nicchia dal fondo nero. Proprio questa nicchia è divenuta oggetto di questioni e polemiche. Una collocazione poco adatta, troppo poco visibile per un quadro di quella importanza, significato e dimensioni. Dovrebbe aprire idealmente il percorso storico artistico. Si trova relegato in un punto di passaggio: quasi ci si passa davanti senza accorgersene, anche per il fondo troppo scuro su cui è posto. Il percorso prosegue poi in modo più funzionale. Aprono le danze alcune opere della collezione Jucker, prima conservata a Brera; la favolosa serie dei quadri di Boccioni, Carrà, Balla e degli altri Futuristi, con la famosissima scultura di Boccioni Forme uniche nella continuità degli spazi, esposte in sale con pannelli color crema e colonne di marmo.
   

Si prosegue poi con gli anni Venti e Trenta e le sale monografiche di Morandi, De Chirico, Martini.Il percorso continua in ordine cronologico. Il ritorno all’ordine del gruppo di Novecento, gli antagonisti della Scuola Romana, i Chiaristi, De Pisis. Si incontrano poi, in un continuo dentro e fuori un po’ labirintico, Manzoni e Burri, il Gruppo T, l’Arte Povera, Marino Marini. Lucio Fontana ha una sala tutta per sé che si affaccia sul celebre Neon e dove è possibile ammirare, nel mezzanino, il famoso soffitto realizzato da lui nel 1956 per la sala da pranzo dell’Hotel del Golfo di Procchio all’Isola d’Elba, decorato con segni, tagli e incisioni operati direttamente sull’intonaco fresco e riempiti di colori puri. Soffitto che ha subito rocambolesche vicende e che stava per essere distrutto nel corso di un radicale intervento di ristrutturazione dell’edificio. Solo la Soprintendenza di Brera e la Fondazione Fontana con il loro intervento, hanno permesso il salvataggio del soffitto.
   

Al centro dell’edificio scorre un imponente impianto di doppie scale mobili. Un po’ centro commerciale, un po’ Centre Pompidou. Una parte molto importante è quella dedicata all’arte davvero contemporanea, che è ospitata nel piano superiore di Palazzo Reale, collegato da una passerella che conduce in sale grandi e adatte alle dimensioni fuori misura di certe opere. Rotella, Pistoletto, la Land art, la Pop art, l’arte concettuale, istallazioni ottiche e reali in cui lo spettatore può entrare e lasciarsi “stordire” dai giochi di specchi, luci, suoni. Finalmente a Milano un museo di arte contemporanea degno di questo nome, nel cuore della città. Con un ultimo interrogativo.
   

E Casa Boschi-Di Stefano? Moltissime opere esposte al museo provengono da quello straordinario ambiente espositivo che era la casa dei coniugi Boschi. Certo, questo trasferimento era già in programma fin dai tempi della loro donazione, ma sicuramente la fisionomia di questa casa-museo è radicalmente cambiata e forse anche snaturata. Rimane Savinio, simbolo della “casa”, ma se ne sono andati importanti e altrettanto significativi Sironi, De Chirico, Manzoni e Fontana. Come fare per non cambiare la fisionomia della casa-museo ma allo stesso tempo permettere di avere una visione globale della storia artistica del Novecento? Questa l’ardua questione. Per ora ci accontentiamo di questo nuovo e veramente attuale museo, gratuito fino al 28 febbraio.
   

Museo del Novecento, Palazzo dell’Arengario, Piazza Duomo, Orari: lun 14.30 – 19.30, mar mer ven dom 9.30 – 19.30 giov sab 9.30 – 22.30 Ingresso gratuito fino al 28 febbraio 2011
   

     questa rubrica è a cura di Virginia Colombo
   

rubriche@arcipelagomilano.org   

    

    

 



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