15 febbraio 2011

GIOVANI, LAVORO, SPERANZE, FUTURO


È sempre molto difficile per me parlare “di giovani” e “ai giovani” perché tra le persone, lontane tra di loro di una generazione o due, passa un solco incolmabile – strutturale se vogliamo usare questo termine o, con parole meno paludate, che esiste “da che mondo è mondo”. Infatti il giovane non è mai stato vecchio e non può in alcun modo avere esperienza della vecchiaia. I vecchi, invece, sono stati giovani, ma il più delle volte si sono dimenticati della loro gioventù, oppure ne hanno un ricordo distorto e narcisistico. Ma anche quei pochi che hanno della loro gioventù un ricordo onesto e critico, non possono veramente condividere quell’esperienza con i giovani di oggi, perché sono stati ventenni, quando il contesto era totalmente diverso, così che si scade facilmente nel luogo comune delle lamentele “ai miei tempi” che, appunto, erano tuoi e non dei giovani di oggi. Cosi, da sempre, le persone di diversa età sono separate dall’acqua, che scorre veloce, del tempo di tutti, che non può essere risalita da chi sta a valle, ma neppure discesa più velocemente della corrente, da chi sta a monte. Solo qualche miracolosa ansa del fiume permette occasionali avvicinamenti, ma anche in questo caso la vicinanza è spesso illusoria e la lunga convivenza che, nonostante il progressivo ritardo nella filiazione, permette oggi a tre e anche quattro generazioni di condividere lo stesso slot spazio-temporale, non può annullare le diversità di esperienza dovute al momento della vita in cui si vivono certi eventi. Io sono cresciuto durante la guerra, ma mio padre, nello stesso periodo, quella guerra l’ha fatta.

Nessuno può rendersi conto di questa “de contestualizzazione” più di un professore che, per mezzo secolo, anno dopo anno, ha convissuto con diverse coorti di giovani. Se confronto i vent’anni della mia generazione con quelli dei miei ultimi studenti è chiaro che c’è stata una inversione di due potenti variabili: livello di ricchezza e suo tasso di variazione. A vent’anni noi eravamo incomparabilmente più “poveri” dei giovani di oggi, pochi avevano l’auto e pochi anche la Lambretta, di telefonini e altri gadgets non si parlava, scarpe e vestiti, anche nelle buone famiglie, spesso venivano dai genitori o dai fratelli maggiori eccetera. Ma il tasso di crescita in Italia e nel mondo era straordinario e tutti lo percepivano, con la conseguenza importante, dal punto di vista delle propensioni individuali, che il costo dell’errore era basso: se ci sono tanti treni e veloci, e sbagli a prenderne uno, recuperi in poco tempo. Oggi è esattamente l’inverso, i giovani hanno, coeteris paribus, molte più risorse materiali, ma il tasso di crescita è piatto, quindi il costo dell’errore è molto elevato: se i treni sono pochi e lenti, per recuperare un errore puoi perdere giorni interi. Di conseguenza i giovani sono estremamente cautelosi e si buttano poco – fatto che a me, d’acchitto, irrita e devo ragionarci su per essere equanime. Perché hanno ragione.

Che futuro offriamo ai giovani adulti? Interpellato da una giovane donna sulle proprie prospettive future Silvio Berlusconi (con quella che a Ballarò dell’8 Febbraio l’imprenditrice Luisa Todini ha definito una dote del Cavaliere e cioè la sua capacità di dire apertamente ciò che molti pensano senza dirlo – resta poi da definire la differenza tra questa “dote” e la cafonaggine) rispose brutalmente “Si trovi un marito ricco”. Ovviamente è vero: una donna che sposa un marito ricco ha risolto i suoi problemi economici, almeno in superficie, ma se quel marito si chiamasse Silvio Berlusconi, come la sua personale storia insegna chiaramente, non si sarebbe procurata una grande qualità della vita. Ma i mariti ricchi disponibili sono comunque pochi. E agli uomini poi cosa consiglierebbe Berlusconi?

Una volta si sarebbe detto “studia”, “impara l’arte e mettila da parte”, ma di recente si sta riaffermando, grazie anche al lavorio di alcuni economisti, l’idea che lo studio non serva, ma, al contrario, possa essere dannoso per la persona e pericoloso per il sistema. Vedi la Tunisia, ammonisce Giulio Sapelli su Il Corriere del 23 Gennaio 2011 (“La lezione (scomoda) dei tunisini più laureati, meno occupati”) con tutti quei laureati disoccupati che poi fanno la rivoluzione. A parte il punto di vista, perché altri potrebbe pensare che fortunatamente c’è stato qualcuno che si è battuto per la democrazia, che si conferma così un sistema che ha bisogno di persone bene informate, è il solito vecchio trucco dei conservatori di sempre, che presentano le proprie idee come innovative e anzi eversive del “mainstream“. Senza rendersi conto, oppure facendo finta di non sapere, che nel caso dell’educazione si tratta semplicemente della filosofia della riforma di Giovanni Gentile del 1923, che rispondeva alla esigenza di un sistema scolastico capace di riflettere armoniosamente una società staticamente bene ordinata: i figli delle classi basse con il minimo di istruzione necessario; le classi medie negli istituti tecnico – professionali, con particolari scorrimenti per il mondo rurale e quello marinaio; le donne rigorosamente nei ruoli ancillari e nell’insegnamento; i tecnici superiori allo scientifico, ma, sopra tutti, i figli dell’elite che fanno il classico e avranno accesso a tutte le facoltà e poi ai ruoli dirigenziali: tutti gli altri sono ingabbiati nelle loro filiere e sopratutto si deve evitare il fenomeno degli “spostati” delle “teste calde” che “chissà che grilli si sono messi in testa”.

La nostra Costituzione ha scelto, con gli artt. 33 e soprattutto 34 (“La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”) una filosofia nettamente opposta. La Costituzione assicura ai giovani la speranza, ma il sistema non ha funzionato bene e nessuna altra provvidenza legislativa si è attirata i fulmini dell’establishment culturale italiano, come quelle che in vari momenti hanno cercato di allargare gli accessi. Essendo l’Italia rimasta ai livelli più bassi di scolarizzazione del mondo, soprattutto scolarizzazione universitaria, ora secondo i vari Sapelli dovremmo ritornare a dire ai giovani stai al tuo posto, non metterti troppi grilli in testa, non andare all’università vai all’istituto tecnico che lì troverai il lavoro. Parrebbe che la società della conoscenza, sulle rive del Mediterraneo non abbia patria, siamo culturalmente poveri e così dobbiamo rimanere.

Il sistema è patriarcale e la miglior prova che il problema del diventare vecchi è l’ingannevole convinzione di essere giovani che lo ha fornito Giuliano Ferrara con la sua festa delle mutande, che ricorda gli obsoleti “panty raids” dei colleges americani, spazzati via dal ’68 come i cappelli della goliardia in Italia. Sentendo le intenzioni conclamate dal grande istrione, ci si sarebbe immaginato (e credo che se lo fosse immaginato anche lui) un festival di gioiosi edonisti goliardi cui spiegare che la destra ha il monopolio del sesso. (Qualcuno si vuole prendere la briga di spiegare a quel benedettuomo di Giuliano Ferrara che anche quelli di sinistra, all’occasione, scopano?) In realtà è stata una riunione goliardica, solo che dai video si capisce subito che i partecipanti erano goliardi quando andavo io all’università, cinquanta anni fa. A parole (scritte) Ferrara è forte, ma dovrebbe evitare il video, l’occhio della webcam è impietoso: guardando le facce flaccide o malamente rappezzate e le gote cadenti (il resto si immagina en frémissant) dell’assemblea di smutandati e partouzards di mezza-e-più età convocati da Giuliano Ferrara al Dal Verme di Milano il 12 febbraio 2011, per sostenere il diritto alle orge del Sultano, si è colti da una leggera vertigine. Soprattutto se dalla mente non si riesce a scacciare l’immagine di un Piero Ostellino che sorseggia un Sanbittér in slip Emporio Armani.

E’ proprio vero che il problema dell’invecchiare, come dice il filosofo, è che si rimane giovani; avevano ben ragione i nostri vecchi, oltre una certa età, a parlare di sesso con un qualche ritegno. Comunque la giornata del Ferrara ha aggiunto un paio di ulteriori dimensioni ossimoriche che mancavano al personaggio: dopo il comunista craxiano, il guerrafondaio pro vita e l’ateo devoto, ci viene proposto il giovanilismo edonistico dell’anziano, ma soprattutto una singolare forma di liberalesimo autocratico e chiliastico; liberi sì, ma solo se c’è un Capo da adorare e implorare (“Berlusconi sei il Capo dell’Italia”. Eja Eja!). Con queste premesse non ci si può stupire se ad Arcore arriva carne fresca a vagoni, mentre al Dal Verme si devono accontentare di un remake a la Stephen King dal titolo “Talvolta ritornano: in mutande”.

Guido Martinotti

 

 

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti