1 febbraio 2011

MILANO. COMPETERE E MORIRE


Chi non vota è invisibile. Gli invisibili non votano. Le vigilie elettorali sono la rara occasione per i cittadini meno rappresentati di ottenere un minimo di ascolto, di essere oggetto di una pelosa attenzione da parte dei raccoglitori di voto dell’ultima ora ma c’è una fascia di popolazione che sfugge anche a questi furbi e accurati mietitori: la tribù degli invisibili, quella di chi non ha casa né dimora, di tutti gli emarginati e degli uomini e donne abbandonati a loro stessi.

Una tribù in crescita ingrossata da tutti       quelli che la crisi sta privando di un lavoro e che spesso insieme al lavoro perdono la famiglia e quel minimo di dignità personale che ti dà la forza di vivere e di lottare. Sono in ultima analisi le vittime di una società che ha innalzato a regola assoluta la competitività. Dove questa regola diventa il codice di comportamento per tutto e per tutti non si ha tempo da dedicare né ai deboli né agli emarginati. Allora questa tribù viene guardata dalle istituzioni civiche come un fardello del quale è necessario farsi carico cercando di razionalizzare il problema, di classificare, di dividere in gruppi e sottogruppi attraverso i quali dare a ogni individuo una sua nuova identità che possibilmente coincida con lo specifico delle strutture di supporto: da una parte quelli con l’AIDS, dall’altra gli alcolisti, dall’altra i disturbati psichici e così via.

Eccoli gli uomini e le donne con una sola identità, quelli di cui ci parla Benedetto Saraceno (http://www.souqonline.it), uomini e donne ai quali la società nel dar loro una nuova identità li ha contemporaneamente privati di tutte le molte altre che costituiscono il nostro complesso bagaglio identitario. Siamo di fronte ad un dilemma grave del nostro mondo che dalla sua complessità cerca di trarre il maggior beneficio economico ma che non è in grado di coglierne le contraddizioni e le affronta andando verso pericolose semplificazioni, funzionali solo al modello competitivo. Questa è la ragione per la quale tutte le volte che sento parlare di competizione tra città (uno dei cavalli di battaglia del PGT di Milano), tra aree geografiche dello stesso paese o di paesi diversi del mondo, provo un moto di sconforto, come se volessimo tornare al mercantilismo, come se non volessimo capire che benessere e ricchezza si raggiungono solo attraverso meccanismi di collaborazione più che di competizione.

Ormai la competizione si è trasformata in egoismo sociale e ne è divenuta la giustificazione: si guarda all’altro come un invasore del proprio spazio, del proprio benessere e la città diventa un terreno di colture dell’intolleranza. Gi invisibili dovrebbero restare tali per non turbare le anime belle perché quando si mostrano ed escono allo scoperto costringono le istituzioni a farsene carico nei modi che abbiamo visto.

Il disagio individuale è un male crescente e la depressione – ora causa ora effetto – è diventata la quarta malattia al mondo per diffusione, in particolare nelle città. Quel che si è fatto sinora a Milano per prevenire e combattere questi mali non riesce ad arginarli, soprattutto in un periodo come quello attuale di crisi economica e di disoccupazione crescente, in particolare giovanile. La collettività urbana pagherà un prezzo per questa sua indifferenza o, peggio, infastidita ostilità: la città che non sa guarire i suoi mali perché intenta solo a competere non si accorge di morire.

L.B.G.



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