1 febbraio 2011

LA VITA DI STRADA NON SI SCEGLIE


Sgomberiamo il campo da una falsa credenza: la strada non si sceglie. Non ci sono senzatetto che un giorno hanno avvertito l’attrazione romantica per la vita dura dei vicoli urbani, per le notti all’addiaccio, per l’estenuante ricerca quotidiana di riparo, cibo, medicine, vestiti. Ci sono invece – questo è vero – molti individui che vivono caparbiamente la strada rifiutando alcune alternative di ricovero, assistenza e cura, di fronte alle quali si sentono diffidenti e vulnerabili.

Si “cade” sulla strada dopo gli ultimi drammatici tentativi di rimanere inseriti in un circuito affettivo e/o assistenziale, vinti dalla forza di un tornado di problemi che nel breve tempo si sono condensati e hanno scatenato una violenta espulsione: più morti improvvise di familiari, una separazione affettiva, guai sul lavoro, una diagnosi di malattia grave, un tracollo economico, uno sfratto, ingenti perdite al gioco, una caduta depressiva. Alla genesi multifattoriale della vita di strada contribuiscono molti altri elementi meno acuti e più cronici: la povertà, l’identità di straniero, la mancanza di documenti riconosciuti, i precedenti penali, l’abuso di sostanze stupefacenti o di alcol, i disturbi del comportamento e lo scarso controllo dell’impulsività.

Milano, non da meno rispetto alle grandi e significative metropoli del mondo, si trova a raccogliere ogni giorno migliaia di questi abitanti che si rendono invisibili, soprattutto nelle ore diurne, perché collocati nelle pieghe nascoste della città, luoghi periferici e isolati, oppure perché talmente in vista da aver allenato lo sguardo dei passanti a essere considerati presenza ovvia e non più interrogante. I senzatetto a Milano sono diverse migliaia, in aumento soprattutto nella fascia compresa tra i 20 e i 40 anni. Una percentuale significativa degli homeless (alcuni studi internazionali stimano fino al 40%) presenta una patologia psichiatrica importante, come il disturbo dell’umore bipolare o il disturbo psicotico, riscontrata prima dell’inizio della vita di strada. Una grande maggioranza abusa di alcol (purtroppo potente antidepressivo a pronta disposizione!) e di droghe, con conseguenti squilibri del comportamento sociale e del quadro sanitario.

Va da sé che la patologia mentale cosiddetta reattiva, cioè depressione, ansia, panico, ossessione, paranoia e somatizzazione conseguenti a un evento traumatico o stressante, sono inevitabile costante delle persone provate da molti disagi fisici, sociali, esistenziali. Di fronte alla vastità della sofferenza urbana, la città si trova spiazzata non solo per la consistenza numerica del fenomeno, ma soprattutto per la sua natura polimorfa e multiproblematica che richiede non già risposte selettive, ma reti di risposte che sappiano tenere conto della complessità del soggetto.

Disponiamo infatti di servizi sociali e sanitari pensati per rispondere a un principale problema già identificato e ben classificato: tossicodipendente, indigente adulto, minore non accompagnato, mamma con bambino, ex-detenuto, malato psichiatrico, sieropositivo, invalido civile. Difficilmente sappiamo dove inviare un soggetto che presenti contemporaneamente molti problemi gravi. Accade così che la persona diventi pallina di un flipper, schizzata da un servizio all’altro della città, allenato a sentirsi rispondere: “Non è di mia competenza”. Diventano efficaci gli interventi emergenziali (tè, coperte, mense, docce), ma si tratta di un’efficacia palliativa, non strutturale. Occorrono servizi capaci di ripensarsi nelle metodologie e negli obiettivi, in grado di andare verso i destinatari della cura e non solo di attenderli in ufficio dietro una scrivania.

Silvia Landra



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