25 gennaio 2011

ASCOLTARE MOZART CON L’IPOD (A SCUOLA)


Nel 1999 Shawn Fanning e Sean Parker creano Napster, il primo sistema di peer-to-peer, grazie al quale è possibile scaricare musica gratuitamente attraverso la rete, condividendola con gli altri utenti (milioni) sparsi per il globo. Nel 2001 Napster perde la battaglia con le case discografiche e chiude per la continua violazione dei copyright: ma è troppo tardi, la rivoluzione è esplosa. I dischi diventano un prodotto vetusto e costoso, i cd fanno spazio agli mp3, di qualità più bassa, ma che leggeri e maneggevoli possono essere contenuti in gran quantità negli iPod. Si può scaricare a pagamento musica da siti specializzati (come l’iTunes Store della Apple) oppure, violando le regole, attraverso i torrent o eMule. L’effetto è devastante: mai tanta musica ha circolato così facilmente e velocemente, le nuove generazioni ne ascoltano a tonnellate, possono accedere con facilità estrema a qualsiasi hit del momento oppure permettersi di scaricare gratuitamente cantautori che non conoscono o gruppi che appartengono al passato (chi vi parla ha “solo” 26 anni, eppure al ginnasio doveva investire l’intera paghetta settimanale per potersi permettere il nuovo cd di Vasco Rossi, o un album storico dei Pink Floyd).

Ma in questa rivoluzione, la musica classica dove si colloca? La portata sarebbe enorme, ma per il momento è alquanto risicata rispetto alle cifre raggiunte dalla musica leggera. C’è chi sostiene, con tanto di saggi e libri pubblicati, che la musica classica sia morta, che la musica colta sia un cadavere in decomposizione, che le nuove tecniche compositive siano prive di significato in questo mondo globalizzato, digitalizzato, on web. Un mondo in cui i giovani s’incontrano più su Facebook che per strada, o preferiscono tifare il nuovo talento di turno sui canali televisivi piuttosto che frequentare una sala da concerto. Troppo comodo metterla su questo piano. Troppo facile sostenere che nel secondo decennio del terzo millennio una canzonetta di Lady Gaga comunichi più che un Lied di Schubert. Un discorso pericoloso, controproducente e in definitiva sbagliato. Invece che crogiolarsi in queste convinzioni ristrette e meschine bisognerebbe approfittare dei mezzi a disposizione per allargare il bacino d’utenza, aprire nuovi canali di fruizione, con l’implicita convinzione che la società in cui viviamo e operiamo, e in particolare proprio quella italiana – alla disperata ricerca di punti di riferimento che siano criteri validi di civiltà, cultura e gusto – abbia bisogno adesso come non mai dei linguaggi “sublimi”, dei poteri terapeutici, e delle peculiarità creative e sociali proprie della musica colta.

Sarebbero molteplici gli esempi validi da cui poter prendere spunto: in Venezuela Antonio Abreu toglie dai barrios, e quindi dalla povertà, dalla droga e dall’analfabetismo migliaia di ragazzi; affida loro uno strumento musicale, garantendo educazione e istruzione, una vita sociale costruttiva, un contatto costante con arte, cultura e creatività, nuove possibilità per il futuro, in definitiva una vita migliore. La stessa cosa, ad esempio, avviene a Ramallah dove i bambini abituati al muro, ai campi profughi, ai check-point, ai tank, alle mitragliate e alle sassaiole possono frequentare gratuitamente la scuola di musica di “Al Kamandjati” e trascorrere le proprie giornate imparando uno strumento musicale, esercitandosi e giocando insieme ai coetanei. La musica quindi non solo come forma di crescita culturale e formativa, ma anche sociale! In questo modo i ragazzi imparano a coesistere, a rispettarsi, a rapportarsi, e relazionarsi con i propri compagni e i propri insegnanti (gli adulti); inoltre si impegnano in qualcosa di creativo, che necessita passione, disciplina, applicazione, inventiva, estro…

Esattamente quello che proponeva la tradizione bandistica, una vera e propria istituzione che è stata fondamentale nel nostro paese ma che è ormai quasi dimenticata, in disuso e che non trova il giusto sostegno da parte dell’amministrazione pubblica. Altro esempio virtuoso in Ungheria: nelle scuole elementari e medie l’ora di musica è sacra, e soprattutto ne è prevista una al giorno e non alla settimana come le ultime legiferazioni di casa nostra hanno decretato! I bambini imparano uno strumento (che non è il piffero), formano un coro, apprendono il solfeggio. Nel nostro paese invece, neanche i ragazzi del Liceo Classico studiano Storia della Musica, che sarebbe oltremodo decisiva per comprendere appieno i risvolti sociali, culturali e storici dalla preistoria a oggi. E ai più piccoli, durante l’ora di musica, insegnanti non specializzati si limitano a proporre programmi superficiali e ad addestrare i piccoli alunni, come fossero scimmiette, in canzoncine spesso ridicole.

Insomma il sistema scolastico italiano sottovaluta deliberatamente la musica, considerandola superflua (meglio imparare a utilizzare un computer), sminuendone l’importanza e l’urgenza in un contesto modernizzato, computerizzato, veloce, che non lascia spazio a creatività e fantasia, e consegnando di fatto alle attuali e prossime nuove generazioni un panorama arido e incolore. I giovani cittadini non dovrebbero “scegliere” di fare musica, iscriversi al conservatorio o a qualche accademia privata (come si sceglie di fare nuoto, giocare a tennis o a calcio), né bastano i laboratori una tantum organizzati dalle orchestre (soprattutto quelle private, che trovano vitale sostentamento economico da queste attività). La musica dovrebbe cioè essere parte costitutiva del servizio educativo statale, elemento integrante dei programmi scolastici, paradigma essenziale della Res Publica!

Magari tra vent’anni i bambini palestinesi non avranno ancora risolto i problemi insormontabili di Cisgiordania e Israele, o i ragazzi venezuelani quelli della criminalità nelle strade di Caracas ma è sicuro che rappresenteranno un aiuto importante e profondo per il progresso sociale, politico e culturale del loro paese. E chissà, magari compreranno anche un disco con le Sinfonie di Brahms, o andranno ad ascoltare i concerti dal vivo, o avranno maturato l’orecchio a tal punto da poter apprezzare gli schemi complicati della musica contemporanea: incrementeranno il mercato e lo sviluppo del mondo musicale, ne espanderanno le destinazioni, ne arricchiranno le prospettive e imporranno soprattutto una migliore selezione qualitativa (e non solo della musica classica).

D’altra parte il sistema venezuelano, dal nulla, in soli trent’anni ha fondato centinaia di orchestre, ha dato speranza a migliaia di giovani, ha creato una miriade di posti di lavoro e di nuove figure professionali, ha scoperto tanti talenti (Dudamel è solo la punta di un immenso iceberg) ed è riuscito nel miracolo di aprire le porte della musica perfino ai sordomuti. Se tutti ci allineassimo in quest’ottica, se nelle scuole s’insegnasse per davvero la musica, se generalmente i progetti culturali mirassero alla qualità, alla condivisione e alla serietà del messaggio musicale magari tra qualche anno, per cominciare, ai primi posti della classifica degli album più venduti su iTunes non comparirebbero più quelle discutibili raccolte con gli Adagi o gli Allegri più famosi e orecchiabili della musica classica, possibilmente i radical chic sarebbero fuori moda, e forse nessuno oserebbe più affermare che Allevi è meglio di Mozart… Sarebbe un primo (notevole oserei dire) passo in avanti. Chissà, potremmo addirittura aspirare a vivere in un paese migliore.

 

Mattia Petrilli


 



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