25 gennaio 2011

TEATRO: RESISTERE, RESISTERE?


Il 2010 vede scendere in piazza, uniti e compatti, attori, autori, Agis, Anica, sindacati. Vede la chiusura di teatri e cinema in segno di protesta, vede lo sciopero da parte di tutto il mondo dello spettacolo come risposta ai tagli introdotti. I giovani quelli più a rischio – come dichiara Giulio Scarpati – la produzione televisiva da bloccare, come annuncia Maurizio Sciarra. Indignazione, “mobilità”, dissenso. Il 2011 vede rinnovare il tax credit per soli sei mesi e si attende l’approvazione di un decreto che prevede il finanziamento solamente delle opere prime e seconde del cinema. La maggior parte delle case di produzione indipendenti cinematografiche più piccole ne soffrirebbe al punto da chiudere, dunque il sentimento è quello di panico davanti agli investimenti futuri.

A prima vista, finanziare solo le opere prime e seconde è un’ottima mossa per riuscire a produrre film di registi giovani e meno noti – ma troncare in questo modo, ovvero in maniera così poco graduale e così violenta, non serve a una struttura produttiva che non è ancora pronta o costruita su questo tipo di sistema. È gambizzante. È come chiedere a un bambino che ha appena imparato a camminare – a stento – di fare una corsa a ostacoli su un pavimento coperto da uova. Di nuovo, indignazione.

Torniamo al teatro. Il teatro ha una caratteristica che lo rende simile nella maggior parte dei paesi – è povero. I grandi teatri, ovunque, funzionano da industria ma le piccole realtà, quelle off e off-off sopravvivono per grazia divina, forse con migliori risultati di quelli italiani e magari con più attenzione ai nuovi autori. E’ vero, drammaturghi tedeschi, svizzeri, scandinavi e anglosassoni sembrano riuscire a campare col proprio lavoro senza dover trovare altre due occupazioni per mantenersi, ma sono pochi e forse equivalgono al numero di quelli italiani più conosciuti – il problema è che quelli italiani non vengono tradotti o esportati all’estero, cosa che gioverebbe molto al nostro sistema teatrale.

Forse, sponsorizzare (pubblicizzare, investire su, promuovere, appoggiare, trovate il sinonimo che più vi appartiene) i nostri autori e le nostre compagnie, sarebbe un modo per creare la nostra piccola industria da palcoscenico, perché gli spettacoli verrebbero prodotti e produrre non vuol dire anche guadagnare? Col taglio del FUS questo sembra impossibile, la circuitazione delle compagnie italiane all’estero incentivata dall’ETI – Ente Teatrale Italiano ora chiuso per i tagli – diminuirà drasticamente. Come trovare una alternativa? Berlino è terra fertile e aperta a spettacoli e autori internazionali, organizza annualmente un festival di drammaturgia che funziona da vero e proprio mercato, dove autori e agenti possono incontrarsi, la Turchia ha organizzato ben due festival internazionali nel 2010, gira voce che Varsavia sia sulla scia di Berlino e in vista di diventare la prossima capitale di cultura alternativa d’Europa.

Tradurre testi vorrebbe dire investire, esportare spettacoli diventerebbe un commercio, per quanto quest’ultima sia la soluzione più difficile, i tagli minano la base dell’organizzazione dei festival – prima fonte di circuitazione delle compagnie indipendenti che non dipendono dal Ministero. C’è un modo però di incanalare le energie e le spese? Sicuramente esportare i testi avrebbe un costo meno elevato, come noi importiamo i Ravenhill e i Crimp, gli altri paesi potrebbero produrre i nostri autori, dai più noti agli emergenti.

Dal punto di vista delle tematiche vale la pena soffermarsi su un esempio che arriva dal Nord. A settembre e ottobre dell’anno scorso, nel 2010, a Dublino si è tenuto il Dublin Fringe Festival e l’Ulster Bank Dublin Theatre Festival. Quest’ultimo in particolare ha visto sui palchi dei teatri dublinesi e non solo, messe in scene di classici, classici rivisitati, nuova drammaturgia, danza e innovazione. Nonostante la recessione, nonostante l’Irlanda sia uno dei paesi più colpiti dalla crisi nel 2010, Il festival si è dimostrato essere una vera e propria risposta alla crisi, una sorta di comeback, una risposta secca e immediata a una battuta ironica, a un insulto, rendendo la recessione un terreno fertile di discussione e creazione. All’inizio del ventesimo secolo, un famoso autore teatrale irlandese, Sean O’Casey, operaio protestante, aveva fatto scalpore e indignato i suoi connazionali con le sue opere. In queste, O’Casey criticava gli irlandesi stessi, provocandoli, dicendo loro di trovare un’identità, di non essere solo capaci a definirsi come “non-inglesi”, di ritrovare le proprie forze.

Le realtà piccole teatrali italiane esistono, sopravvivono e devono riappropriarsi di una cultura varia, profonda e ricca di sfumature come la nostra. Se bisogna essere compatti e uniti, oltre allo scendere in piazza, bisogna esserlo per questo, come dimostra Dublino. Forse bisogna trovare – a livello di temi e argomenti – una dimensione che si possa condividere col pubblico al 100%, così da attirare più persone, interessarle maggiormente a un’arte che può sempre affrontare i grandi temi.

Chiaro che, immergendosi nell’utopia più totale, se solo i miliardi spesi annualmente nello Stato fossero distribuiti in un modo più adeguato che possa finanziare le arti e creare così una vera industria dello spettacolo, perché all’industria si deve arrivare, come i tanto disprezzati – ma invidiati – Stati Uniti, allora tutti questi discorsi non avrebbero necessità di esistere se non per esercitarsi nella scrittura. Ma su questo pensiero – come la fine di molti testi teatrali mai messi in scena – cala la tela.

 

Guendalina Murroni



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