18 gennaio 2011

FIAT: IL PARADIGMA LIBERISTA E LO “SPARIGLIO”


Queste note sono state scritte prima del referendum di Mirafiori, ma poco importa, non perché non ne sia evidente il grande significato e impatto, ma perché l’evento si situa comunque al di fuori della linea di ragionamento che intendo proporre. Vorrei ragionare su esistenza e praticabilità di un paradigma diverso dal pensiero unico di Sergio Marchionne, o meglio ancora sulla necessità di “sparigliare” il suo gioco. Come tutti sanno, nello scopone scientifico il susseguirsi delle mosse a un certo punto diviene quasi obbligato, e chi lo subisce ha solo un modo per sottrarsi alla sconfitta ormai certa: è lo “spariglio”, il cambiamento improvviso e quasi temerario della trama di gioco fin lì seguita.

Qualche giorno fa si poteva ammirare su Repubblica il contributo di Carlo Galli, così accurato, così sottile nell’identificare interessi e persino psicologie degli attori in campo, nel ravvisare i presupposti e il possibile svolgimento del Teorema Marchionne, così evidentemente amaro nel cogliere il lacerarsi di un tessuto secolare di lotte e diritti. Tanta lucidità mi è apparsa alla fine come sprecata, la conferma di quel detto hegeliano per il quale la Nottola (simbolo della maturità della Ragione) spicca il suo volo solo al tramonto: così la lucidità del pensiero democratico tocca i suoi vertici allo spirare della sua stagione ideale, quasi compiaciuto nel raccontare e spiegare così bene … quello che fanno gli altri.

Perché questa pare la condizione e quindi la sfida: se si resta all’interno del paradigma liberista, non resta altro che “raccontare” lo svolgersi vittorioso della sua logica intrinseca: a) il capitale è libero di ricercare su scala mondiale i luoghi in cui può meglio valorizzarsi; b) misura e definisce la compatibilità “ottimale” (costi, ritmi, poteri) con il lavoro e la impone; c) i lavoratori possono “decidere” di accettare la sua proposta; d) se la “proposta” non è accettata, gli stabilimenti chiudono e allora liberi tutti: il capitale di cercarsi altrove la sua classe operaia, e i lavoratori di cercarsi il loro capitalista. L’asimmetria dei poteri e delle facoltà tra capitale e lavoro su scala mondiale ha rivoluzionato lo scenario preesistente: possiamo e dobbiamo avvertire uno spasmo allo stomaco per la rabbia, ma questa è la situazione definita dalla logica del liberismo globale. E imposta dalla sua forza.

Per questo, restando all’interno del suo paradigma, le due politiche sindacali in lotta tra loro appaiono come facce della medesima medaglia, entrambe rese passive dalla potenza della controparte. Certo, la differenza tra chi accetta di bere oggi l’amaro calice e chi non lo intende bere è eclatante, ma in definitiva poca cosa se si considera che in entrambi i casi è assente un altro paradigma che ridia senso al concetto dei diritti e spazio effettivo di manovra per la loro pratica. Entrambe le strategie presentano enormi debolezze: pochi mesi fa lo strappo di Pomigliano veniva presentato dal manager col golfino come eccezionale, e ora ci si ritrova con l’estensione dell’eccezione a tutto il Gruppo. E d’altra parte, chi può pensare realisticamente che scioperare oggi possa dare fastidio a un manager che sta già “tirando giù la claire” di sua iniziativa?

Qui si deve introdurre nel discorso la questione essenziale: qual è l’effettiva strategia della FIAT e qual è il peso del comparto automobilistico nel contesto produttivo italiano? Un primo punto fermo che illustra entrambe le questioni è il seguente: l’Italia “ospita” una grande multinazionale dell’auto, ma occupa solo il 9° posto nella classifica europea dei paesi produttori d’auto. Ergo: FIAT la sua scelta l’ha già fatta da molti anni ed è una scelta di abbandono dell’Italia come piattaforma produttiva. Le auto FIAT sono prodotte perlopiù in Brasile, Polonia, Serbia; solo per 1/3 sono fatte in Italia.

Un secondo punto fermo è che FIAT viene usata dal suo management e dalla sua proprietà come cavallo di Troia per costruire un player transnazionale che vivrà sempre più di vita propria, lasciando l’Italia sullo sfondo, come piattaforma produttiva e come mercato. Sembra quasi di intravedere in filigrana la vicenda dell’Alfa Romeo, comprata dalla stessa FIAT per distruggerla, impedendo ad altri concorrenti di impiantarsi in Italia. Allo stesso modo, oggi, FIAT come realtà produttiva autoctona, come campione nazionale che coniuga forte impianto locale con una strategia globale, è un discorso finito nella strategia di Marchionne.

La questione allora è: l’Italia accetta di perdere, dopo la chimica, la farmaceutica, l’informatica, la telefonia, anche l’automobile? Questo è il punto. Per Berlusconi, Bossi e il centrodestra, la risposta è sì, per tanti motivi. Vecchi rancori proprietari, priorità culturale della piccola impresa, desiderio di assestare un colpo mortale al potere sindacale, miopia strategica. Ma per i lavoratori, per il sistema della ricerca e dell’indotto, per Torino, per il PD e il Paese?

In Francia e in Germania, la tutela delle maggiori imprese nazionali, è perseguito e sviluppato con determinazione, risorse adeguate e, udite udite, forte presenza del Pubblico: Renault e Volkswagen sono, a diverso titolo, grandi piattaforme produttive, regolate da modelli di governance miste pubblico – private, sostenute dalle comunità finanziarie locali, condotte in stretta collaborazione con le rappresentanze sindacali. Renault è dello Stato Francese (15% delle azioni), che governa l’impresa, in cooperazione con un grande soggetto finanziario (Alliance) e un grande gruppo automobilistico più vassallo che padrone (Nissan). In Volkswagen è forte il Land Sassonia (20% azioni) e la governance prevede strette relazioni con le rappresentanze sindacali. Non paradisi dei lavoratori certo, ma neppure campi di esercizio della pura volontà di potenza del management.

E’ questo lo Spariglio, il paradigma territoriale e partecipativo, cui guardare in alternativa a quello di Marchionne? Forse ci si potrebbe ragionare, quantomeno potrebbe essere lo scenario in cui ricollocare gli attori e “vedere le carte” del giocatore italo canadese. Gli Agnelli vogliono andarsene? Bene, si accomodino pure, ma non pensino di ridurre la FIAT a un nulla per farsi gli affari propri in giro per il mondo. Se proprietà e management FIAT non intendono più sviluppare la produzione automobilistica italiana, che lascino il campo a nuovi soggetti imprenditoriali. La collettività, e quindi la Politica, prenda l’iniziativa, si faccia promotore di un vero progetto, di una vera Fabbrica Italia, fondata su di un modello misto, dove energie imprenditoriali trovino sponde forti nelle banche nazionali, con il contributo dello Stato e delle Regioni, oltre che la forza e l’energia dei tecnici e dei lavoratori e, perchè no, anche la partnership con qualche grande costruttore: perché poi non fare per Fiat ciò che si è fatto per Alitalia?

Fuori da un nuovo paradigma, fuori da un nuovo protagonismo pubblico – privato, temo restino solo le querule preghiere di Bersani: va bene l’accordo come lo volete voi, ma lasciateci almeno la rappresentanza. Come se una rappresentanza octroye, gentilmente concessa dal padrone dopo la disfatta, potesse avere un qualche effettivo peso nella dialettica dei poteri in impresa. E’ una provocazione socialista? Forse. Ma oggi, di fatto, siamo già in presenza del “socialismo di lor signori“, il socialismo delle perdite: migliaia di miliardi di dollari e di euro trovati e gettati per coprire la finanza dei mascalzoni. Persi per persi, per quale motivo non gettarne qualcuno, solo qualcuno, in direzioni più meritevoli?

Post Scriptum: il paradigma à la Marchionne viene giustificato da dati statistici che, pur non essendo in se stessi falsi, lo divengono per il modo tendenziosi con cui sono proposti, decontestualizzati e grezzi, a suggerire una automatica associazione tra basso numero di auto prodotte per dipendente e poca voglia di lavorare degli operai italiani. Volutamente, si confondono percentuali di utilizzo degli impianti, numero di auto prodotte per dipendente, produttività massima potenziale di un impianto, valore prodotto per dipendente, profitto per dipendente, e infine profitto per unità di capitale (che è l’unica “produttività” che davvero importa al “padrone”).

I dati 2009 (*), gli ultimi disponibili a livello europeo ci dicono che gli stabilimenti FIAT italiani hanno registrato un basso utilizzo medio degli impianti. Ma il dato è appunto medio e comprende sia il valore massimo di Melfi, attestato ai massimi europei sia quello di Pomigliano, pressoché fermo per Cassa Integrazione. Se ci riferiamo alla produzione di auto per dipendente, dati analoghi agli stabilimenti di Termini Imprese e Mirafiori li troviamo in Romania e Douai (Renault) e Mulhouse e Possy (Peugeot). Se approfondiamo si scopre infine che la minore produttività è determinata spesso dalla consunzione del ciclo commerciale delle auto prodotte in quegli stabilimenti.

Tutto questo significa tre cose: a) con l’attuale Contratto, Melfi è all’altezza delle migliori performance europee; b) la bassa produttività (utilizzo degli impianti) di altri stabilimenti FIAT dipende prima di tutto dalla cassa integrazione, a sua volta generata dalla fine del ciclo di vita del prodotto; c) si comparano impropriamente mele e pere: 1 Panda e 1 Croma, 1 Cherokee e 1 Ferrari, sono considerate tutte come 1 auto, ma ciascuna di esse è il risultato di un processo produttivo altamente differenziato, in termini tecnologici, lavorativi e di costo. E’ quindi concettualmente scorretto, economicamente falso, e politicamente grave: a) derivare sic et simpliciter la produttività dal Contratto Nazionale di Lavoro e dalle sue tutele; b) comparare la produttività di impianti, e addetti, sempre in funzione con quelli inattivi (CIG); c) comparare il numero di auto per dipendente tra uno stabilimento che produce Panda con uno che produce Croma, sia in termini quantitativi che in termini di produzione di valore.

Ovviamente, in uno stesso impianto, dal basso utilizzo degli impianti consegue anche il basso numero di auto prodotte annualmente per addetto, ma non è automaticamente vero, e qui si bara proprio, che al 100% di utilizzo dei suoi impianti corrisponda un’alta produttività rapportata alla media di settore: la produttività di uno stabilimento dipende essenzialmente dalla potenza degli impianti tecnologici installati. Mirafiori non è certo all’altezza di Tichy o di Betim. Ma quello che in definitiva conta è la produzione di valore, la risultante finale del rapporto tra capitale investito e ricavi generati, mediata dalla complessità delle variabili appena viste e da altre ancora. In questo punto trova collocazione il tema del costo del lavoro, che, pur certamente più alto in Italia che in Serbia o Polonia, non incide tuttavia più che tanto (circa il 7%). Quello che veramente incide è il costo del capitale fisso (impianti), quindi la capitalizzazione dell’impresa, garantita dall’imprenditore privato e, se questa non basta, dall’investimento pubblico e della politica fiscale di sostegno.

E qui casca l’asino: Polonia, Serbia, Brasile, hanno investito sull’Auto come Stati per generare un forte ritorno alla loro collettività nazionale. L’Italia no, non almeno negli ultimi anni. E questo è il motivo di fondo per cui FIAT, che è sottocapitalizzata, cioè finanziariamente inadeguata in quanto proprietà, cerca finanza pubblica in giro per il mondo: non trovandola in Italia, opta per localizzarsi presso altre nazioni.In un certo senso, non è FIAT che sceglie il Brasile, ma il Brasile che sceglie la FIAT. Questa è la responsabilità grave di tutti i governi italiani degli ultimi quindici anni: l’Italia non ha più scelto la FIAT, così come non ha più scelto Olivetti, Omnitel, Infostrada, e ha lasciato gli operai a sbrigarsela ad soli.

Giuseppe Ucciero

(*) per un’ottima documentazione vedere Sole 24 Ore del 26 ottobre 2010, Andrea Malan



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