11 gennaio 2011

L.194: LA SCONFITTA DI FORMIGONI


Tra tutte le dichiarazioni del Presidente della Regione Lombardia contro il Tar a seguito dell’annullamento delle linee guida regionali – di cosiddetta attuazione della legge 194, sulla interruzione di gravidanza- non può essere sfuggito il silenzio assordante su un eventuale appello al Consiglio di Stato. Quel che emerge da quelle dichiarazioni non è tanto quel che affermano ma soprattutto quel che tacciono e la questione è che se la Regione Lombardia impugnasse in appello la sentenza del Tar si esporrebbe a un’altra sonora bocciatura da parte del Consiglio di Stato dato che è ben arduo sostenere che un atto regionale possa modificare una legge nazionale.

Questo ha ricordato a chiare lettere alla Regione il TAR accogliendo integralmente il ricorso di otto medici e della Cgil Lombardia. Come avvocato e componente del collegio legale che insieme ai colleghi prof. D’Amico e Angiolini ha difeso le loro ragioni, non posso tacere del fatto che il Tar: 1) ha ribadito che la legge 194 ha un contenuto costituzionalmente vincolato poiché il legislatore nazionale ha tutelato e bilanciato i diritti fondamentali sia della donna che del concepito come riconosciuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 35 del 1997;

2) ha ricordato che l’equilibrio giuridico individuato dal legislatore nazionale nel 1978 contempera la tutela giuridica del concepito (ricompresa nell’art. 2 della Costituzione sui diritti inviolabili dell’uomo) con i casi in cui può essere sacrificata per evitare gravi pericoli alla salute e alla vita della madre (articolo 3 della Costituzione e successive pronunce della Consulta che impongono di dare “prevalenza al bene salute di chi sia già persona rispetto a chi persona deve ancora diventare”);

3) ha sottolineato i limiti della competenza regionale e la palese violazione da parte della Regione Lombardia dell’art. 117 della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni sia in termini di accesso che in termini di erogazione delle medesime; 4) ha evidenziato che se il legislatore nazionale ha previsto il termine per l’aborto terapeutico – che ricordiamo, può essere fatto solo in caso di “grave pericolo di vita” e di “grave pericolo per la salute” della donna- la Regione non può stabilire il termine ultimo delle 22 settimane per accedere alla prestazione sanitaria;

5) ha specificato che se il legislatore nazionale non ha fissato il termine ultimo è perché ha riservato alla paziente e al medico la valutazione e le procedure di loro competenza; 6) il legislatore nazionale ha riservato al medico la facoltà di rivolgersi ad altri specialisti e non può la Regione imporgli il ricorso allo psichiatra e alla firma congiunta di altri medici per poter essere autorizzato a eseguire l’intervento.

Inoltre, e forse questa è un’altra ragione che ha determinato la ferita narcisistica della Regione Lombardia, è che la pronuncia del Tar evidenzia quale è il confine – non superabile – tra la competenza dello Stato e quella delle Regioni ai sensi della costituzione e della riforma federalista del titolo V. E questo è un principio molto importante che tornerà utile, a noi, tenere presente.

 

Ileana Alesso



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