21 dicembre 2010

IL MEDICO È OK SE LOTTIZZATO


Approssimandosi la fatidica nomina in blocco, da parte della Giunta regionale, dei direttori generali di ospedali e ASL si ripropone la vexata questio: designazione attraverso il principio della fiducia, con rischio congenito di scivolamento nella lottizzazione partitica, oppure incarico mediante criteri di incontaminata meritocrazia? Per altro la convinzione, apparentemente ovvia, che professionalità, competenza, orientamento al risultato siano requisiti necessari e sufficienti per ricoprire il ruolo di “manager” di entità che si definiscono “aziende” merita qualche approfondimento. Le Aziende, sia sanitarie che ospedaliere, non sono nate tali, bensì così trasformate dalle originarie Unità – (Socio) – Sanitarie Locali istituite con la riforma del 1978 che aveva teso appunto, a unificare la pletora di enti, mutue e istituti preesistenti, nonché a collegare funzionalmente gli interventi di prevenzione-cura-riabilitazione (e assistenza sociale, almeno nelle regioni “virtuose” tra cui la Lombardia).

A partire dagli anni ’80-’90 invece, sull’onda dell’ideologia mercatista prevalente e tuttora perdurante, si è voluto di nuovo separare le attività di cura da quelle di prevenzione ambientale e di integrazione sociale, e al loro interno quelle intra da quelle extra-ospedaliere. Certamente questa trasformazione non fu all’epoca immotivata. La gestione politica pervasiva delle USSL, compreso l’espletamento dei concorsi medici e l’acquisto delle apparecchiature medicali, da parte di consigli di amministrazione di stretta appartenenza partitica era degenerata e andava sicuramente cambiata e corretta. Tuttavia si è caduti nell’estremo opposto: la tendenza, per altro illusoria, di espellere del tutto la politica dalla sanità mettendo quest’ultima al riparo di un virtuale “camice bianco” asettico e apparentemente apolitico. In realtà la dimensione politica si è tutta concentrata nel livello regionale, perdendo invece il contatto con la realtà locale e territoriale, ove è tuttavia inevitabilmente riapparsa sotto le mentite spoglie dei “manager” e delle presunte “aziende”.

Questo percorso ha ribaltato il nucleo ideale della riforma che si basava sulla distinzione tra la “salute” intesa come valore d’uso, benessere psico-fisico e qualità della vita, diritto dell’individuo e interesse della collettività, e la “sanità” intesa come insieme delle strutture e delle prestazioni, ovvero valore di scambio economicamente quantificabile. Tale distinzione non deve far sottovalutare l’importanza della spesa e delle priorità economiche, bensì mantenere chiara la gerarchia tra i fini e i mezzi: la salute è il fine, la sanità il mezzo, non viceversa. Ma se i valori di scambio giustamente competono alla produzione aziendale, i valori d’uso dovrebbero (il condizionale ahimè è d’obbligo) competere alla politica.

Cosi come altri campi altrettanto importanti e delicati – l’assistenza all’infanzia, il sostegno ai disabili, la sicurezza stradale nonché le politiche del territorio, traffico, educazione, ecc. – sono affidati nel bene e nel male a un controllo democratico a partire dalla dimensione locale (perfino eccessivo: esiste un assessore comunale e in parallelo uno provinciale all’ambiente, alla mobilità, alla cultura ecc.: uno dei due è di troppo!) invece manca del tutto il corrispettivo in campo sanitario. Tutto è centralizzato nel potente Assessorato Regionale e nelle sue emanazioni “manageriali”.

Non si tratta dunque di tornare a incongruenti pratiche del passato, allorquando dall’anticamera del Consiglio di Amministrazione di una importante clinica milanese si è sentito urlare “qui occorre un oculista non un socialista!”, bensì distinguere, secondo una cultura politica affacciata dalle “leggi Bassanini” e troppo presto anch’essa accantonata, le funzioni di indirizzo e controllo da quelle gestionali e tecnico-operative. Da un lato ripristinare, senza creare organi aggiuntivi, i poteri di definizione degli obiettivi, controllo del budget e valutazione dei risultati in capo agli enti locali (le USSL originarie, prima di essere espropriate dalle regioni, dovevano essere né più né meno che i comuni singoli o associati). Dall’altro selezionare una struttura tecnica e amministrativa mediante criteri di competenza e professionalità ma anche di responsabilità verso un “committente” istituzionale a sua volta responsabile verso i cittadini elettori. La Regione deve tornare alle funzioni proprie di programmazione e legislazione, abbandonando la pretesa perversa di gestire nel dettaglio la salute di nove milioni di anime. I “servizi alla persona” devono invece attribuirsi nel loro insieme all’Ente Locale, anche in vista di un possibile “federalismo fiscale”, cosi come la “carta dei servizi” individuale non può essere disgiunta dalla primaria competenza comunale sulla tenuta dell’anagrafe.

L’allargamento e il decentramento democratico non potrebbero allora che portare beneficio, come in ogni altro aspetto della vita sociale e civile, a patto di essere sostenuti da una volontà politica che si scrolli di dosso la sudditanza verso una medicina mercantile troppo spesso ridotta a strumento di potere, abbandonando i difetti ma recuperando quanto di buono ha prodotto a suo tempo la cultura riformatrice (altro esempio: la pratica dei BSA, bilanci sociali di area, da rivisitare nel momento in cui ci si accorge finalmente dei limiti e contraddizioni del PIL quale misura del grado di benessere e soddisfazione di una popolazione).

 

Valentino Ballabio



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