14 dicembre 2010

CHE FINE HA FATTO IL PIANO CASA?


“Un piano casa tanto carino senza soffitto senza cucina” titolava il 2 dicembre il Sole 24 Ore dando conto della manifestazione Ance con un articolo di Giorgio Santilli nel quale si lamentava il prevedibile flop di quei provvedimenti per il rilancio dell’edilizia che sembrano ormai stabilmente aver usurpato la denominazione di Piano Casa sottraendola a quello “vero” di cui sempre più si sono perse le tracce, almeno nella accezione dell’edilizia sociale. Come si ricorderà, a fronte dell’ormai conclamata gravità sociale del problema abitativo del paese conseguito all’abbandono decennale delle politiche abitative sociali proprio quando l’immigrazione, le nuove povertà e la crescita dei valori immobiliari lo rendevano più acuto, il governo Prodi accompagnava l’ennesimo provvedimento di proroga degli sfratti per categorie deboli (legge 9/07) con l’istituzione di un Tavolo di Concertazione con una pluralità di soggetti pubblici e privati al fine di impostare un programma di intervento multi-dimensionale e di medio termine, capace di operare una “normalizzazione” del mercato.

Il documento uscito dal Tavolo propone una gamma di interventi molteplice e capace di mobilitare nuove risorse, volte sia all’incremento che alla migliore gestione dell'”alloggio sociale”, cui il governo uscente dava in extremis l’attesa definizione per rispondere alla richiesta europea e non incorrere in sanzioni per “aiuto di stato”: viene così sancita l’idea che l’alloggio sociale debba essere considerato un servizio (dotazione urbana) di pubblico interesse e possa quindi essere localizzato in aree a ciò destinate dal piano urbanistico. Soprattutto, si avverte, condizione imprescindibile per affrontare la soluzione del problema abitativo delle fasce deboli è un ritorno importante e programmato del finanziamento pubblico e si prospetta una necessità intorno a due/tre miliardi di euro all’anno.

Di tutte le indicazioni del Tavolo non resterà molto nei provvedimenti concreti. Con la Finanziaria 2008 il governo finirà per destinare buona parte delle risorse a una indiscriminata quanto inefficace riduzione dell’Ici sulla prima casa, che sarà resa ancor più ampia pochi mesi dopo dal nuovo esecutivo, mentre distribuisce quelle destinate alla produzione (445 milioni di euro una tantum) secondo un vecchio modello a pioggia. Meglio di niente tuttavia, se almeno queste risorse fossero state utilizzate in fretta, ma la crisi di governo non lo consentirà e il nuovo esecutivo, che pure porrà subito al centro la questione abitativa, lanciando un nuovo Piano nazionale di edilizia abitativa nell’estate 2008, sospenderà l’impiego diretto delle risorse già stanziate – e già impegnate da alcune regioni, per rimetterle nel grande calderone del Sistema Integrato di Fondi Immobiliari, che rimarrà praticamente l’unica procedura di attuazione del Piano e di cui proprio in questi mesi si sta assistendo al lancio pubblicitario.

Un lungo braccio di ferro con le Regioni aveva in realtà portato a un parziale recupero dell’impiego diretto delle risorse per l’emergenza abitativa, ma certo in misura modesta e con tempi storici. Regione Lombardia, che è fra i maggiori beneficiari di tale recupero, ha da poco deliberato le proposte da inviare al Ministero per il riparto di 54 milioni di euro provenienti da quello stanziamento e se tutto va bene entro tre anni alcune centinaia di alloggi potranno essere destinati all’emergenza abitativa …rilevata dalla regione nel 2007. In effetti ciò che accade è che alla scarsità delle risorse investite si somma la loro ridotta efficacia e ciò anche a causa di tempi di attuazione inaccettabili.

Si pensi alla vicenda milanese e ai “20.000 alloggi per le fasce deboli” promessi nel 2005 dal Piano Verga su oltre quaranta aree di proprietà comunale. Ci vorranno due anni per arrivare al primo bando “Abitare a Milano 1” su quattro aree, a cui ne seguirà un secondo “Abitare a Milano 2” su altre quattro per un totale di circa 1.000 alloggi in affitto, prevalentemente sociale. “Abitare a Milano 3”, più noto come “8 aree”, vedrà la luce nel 2008 e risulterà invece solo parzialmente destinato all’affitto: per circa il 30%, fra 4 e 500 alloggi, nell’insieme delle sei aree aggiudicate. Circa altrettanti, infine, sono previsti a seguito del contemporaneo bando aggiudicato a Fondazione Housing Sociale su altre tre aree.

In totale, a distanza di sei anni dalla prima delibera di giunta del 2004, forse 2.000 alloggi in affitto risultano avviati, ma quando effettivamente disponibili? Di tutto quanto elencato solo i quattro interventi di AaM1 (Abitare a Milano 1) sono stati realizzati e neppure tutti collaudati, uno soltanto è abitato, ma non completamente. Di AaM2 vi sono i progetti esecutivi, per AaM3 a quasi due anni dalla aggiudicazione non per tutti si è ancora giunti ad approvare PII (Programma Integrato di Intervento) e convenzione, mentre il bando Fondazione Housing Sociale ha da poco scelto i progetti vincitori del progetto di architettura. Nel frattempo, è superfluo rilevarlo, la domanda abitativa sociale e “molto sociale” non ha fatto che aggravarsi e tanto più tempi di attuazione siffatti appaiono del tutto inaccettabili.

Tornando in conclusione al quesito del titolo, del Piano Casa non sembra dunque essere rimasto che il mega Fondo dei Fondi Nazionale, alimentato dagli ultimi 140 ml di finanziamento pubblico disponibili e portato a quasi due miliardi da Cassa Depositi e Prestiti e investitori istituzionali, e di cui si favoleggia immaginando che possa muovere fino a 9 – 13 miliardi di euro. Ma per realizzare cosa? Se a conti fatti il denaro verrà a costare all’operatore non meno del 4 o 5%, quale potrà essere la quota di alloggi realizzati accessibile alla domanda sociale? Se vi sarà, certamente marginale. Quel che è certo invece è che di finanziamenti statali aggiuntivi, diretti a soddisfare la domanda più sociale, non ve ne sono e non ve ne saranno.

E neppure è rassicurante il fatto, rivelato al recente seminario regionale sull’argomento, che operatori del settore con operazioni pronte orientate all’housing stiano valutando se, piuttosto che ricorrere al meccanismo complesso dei fondi, non sia preferibile continuare a rivolgersi, a tassi analoghi se non inferiori, al sistema di credito ordinario. In estrema sintesi, sono convinto che affidare l’edilizia sociale interamente al buon cuore del privato, come sembra fare anche il PGT (Piano di Governo del Territorio) di Milano, non possa portare da nessuna parte.

Sergio D’Agostini



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