13 dicembre 2010

FINE VITA: LIBERTÀ E DIGNITÀ*


Penso che molte posizioni radicali dei sostenitori della sacralità della vita derivino da equivoci sul significato di questa parola. La vita biologica è perfettamente definibile, ma da questo punto di vista l’uomo non differisce, se non per particolari anatomici e fisiologici, dalla pluralità degli organismi vegetali e animali che popolano la terra. Se ci si attiene a questo solo criterio, è contraddittorio parlare di sacralità della vita quando quotidianamente dei viventi sono soppressi o perché considerati dei parassiti nocivi o per utilizzarli a scopo alimentare. Anche uno squalo, un serpente a sonagli, uno scorpione o uno streptococco emolitico sono vita. Alcuni dei farmaci più efficaci che usano i medici si chiamano antibiotici, cioè sono diretti contro la vita. La vita è spenta quotidianamente nei macelli.

In realtà, occorre fare distinzione tra vita biologica e vita umana. Quest’ultima è certamente impossibile senza vita biologica, ma implica qualcosa di radicalmente superiore, che è difficile definire con semplicità. Io sottolineerei quattro qualità specificamente umane (non pretendo di descriverle tutte e l’ordine con il quale le elenco non è gerarchico, ma puramente casuale): (1) la capacità di inferire, con l’esercizio della logica, aspetti della realtà che vanno al di là delle esperienze percettive e della loro memoria; (2) la comunicazione simbolica; (3) l’immaginazione; (4) la peculiarità dei sentimenti.

Questi miei commenti sono schematici e sono certo che ben altro si potrebbe dire su questo argomento. Ma, ai fini del discorso che intendo sviluppare, io credo che basti l’intuizione elementare del senso comune che fa apparire ben diversa la vita di un uomo da quella di un animale o un vegetale. Aggiungo che nella definizione che ho dato della vita umana non ho parlato di entità metafisiche come l’anima o lo spirito, non perché io sia materialista, ma perché questo è un tema troppo complicato perché io mi avventuri su questo terreno.

Fatta questa premessa, io voglio sostenere che la vita biologica dell’uomo è sacra solo in quanto supporto della vita umana; se non lo è più, anche la sacralità viene meno. Naturalmente, su questo punto occorre una importante precisazione. Esistono persone che, per menomazioni delle facoltà mentali, sono sprovviste di tutti quei requisiti che ho citato a proposito della vita umana e tuttavia possono esserne partecipi in grazia dell’amore che ricevono. Penso che, in un certo senso, l’amore abbia una proprietà riflessiva, così che in chi lo riceve si trasfonda l’umanità della vita di chi lo somministra. E questo vale anche per chi è privo di affetti familiari e di amicizie, perché vi sarà sempre la pietas di qualche persona caritatevole, disposta ad amare un estraneo in quanto essere umano.

Credo che questa sia una premessa necessaria per definire con precisione che cosa è l’accanimento terapeutico. E’ – io penso- rappresentato da trattamenti che sono in grado di prolungare la vita biologica di un essere umano senza prolungare o recuperare la vita umana. E quando parlo di trattamenti mi riferisco a tutte le misure che si sovrappongono artificialmente, come frutto di cultura, a quello che avverrebbe spontaneamente (meglio che dire “naturalmente”) nella vita normale di un essere umano. Queste misure includono la somministrazione di farmaci o interventi chirurgici, ma anche la nutrizione con sonde gastriche e alimenti artificiali o la respirazione con ventilatori meccanici. Sono medico e trovo tutte queste misure ottime, a patto però che non siano strumento di accanimento terapeutico.

So bene che alcuni ritengono che la nutrizione con sonde o alimenti artificiali non sia un intervento terapeutico, ma a me questo sembra un sofisma. Nessuno si alimenta normalmente in questo modo e la terapia medica non consiste solamente nel dare dei farmaci: è anche largamente sostitutiva. Così come diamo dell’insulina a un diabetico che manca di questo ormone o della tiroxina a un ipotiroideo, con lo stesso intento iniettiamo una fleboclisi di soluzione fisiologica o glucosata a un paziente disidratato e somministriamo una nutrizione parenterale o enterale a chi non è in grado di nutrirsi come fanno tutti i mortali. Che una nutrizione di questo tipo sia una terapia medica a tutti gli effetti è stato anche affermato autorevolmente dai presidenti della Società Europea di Nutrizione Clinica e Metabolismo e della Società Italiana di Nutrizione Artificiale e Metabolismo. E poi non si tratta di dare da mangiare agli affamati o da bere agli assetati, quando questi trattamenti sono riservati a pazienti che, per le condizioni del loro cervello, non possono sentire né fame né sete.

Detto questo possiamo considerare alcuni fatti di attualità, cominciando dal doloroso caso di Eluana Englaro. Secondo il mio punto di vista, su questa disgraziata giovane è stato esercitato per anni l’accanimento terapeutico e si pretendeva che venisse proseguito con argomenti che tendevano a demonizzare chi non è d’accordo con coloro che confondono vita biologica e vita umana. Io penso che, per quanto riguarda la vita umana, la povera Eluana Englaro era morta da tempo ed è stato misericordioso prenderne atto.

Più complesso è il caso di Welby che, come si ricorderà, chiese e ottenne di essere staccato dal respiratore che manteneva la sua vita biologica. A differenza della Englaro, nella quale l’assenza della vita umana è incontrovertibile data la presenza di uno stato vegetativo permanente, Welby era cosciente. Ma era umana la sua vita? Credo che egli stesso fosse il miglior giudice di questo dilemma. Penso che uno stato continuo di sofferenze, senza speranze (e questa credo che sia la sofferenza maggiore), annulli tutti i tratti che fanno umana una vita. Perciò, per situazioni nelle quali sia mantenuto almeno un barlume di coscienza credo che la soggettività dell’interessato debba essere rispettata. Non tutti gli esseri umani sono, per fortuna, uguali e perciò io sono favorevole al testamento biologico.

E che dire di coloro che sono in stato vegetativo permanente e perciò sono privi di coscienza? So che proprio il caso della povera Eluana Englaro ha scatenato discussioni tra cosiddetti esperti a proposito del fatto se questo stato comporti o no qualche forma di sensibilità che imponga di rispettare la sua vita biologica. Ma questa a me sembra una questione oziosa. Se anche in questo stato qualche forma di sensibilità fosse preservata, che vita sarebbe quella riservata ai disgraziati imprigionati passivamente nel loro corpo inerte, spogliati di tutto quello che rende umana la vita? L’amore delle persone a loro vicine potrebbe solo desiderare di liberarli da questa terribile sofferenza.

E’ certamente vero che anche per situazioni di assenza di coscienza, come lo stato vegetativo permanente, occorre una certa forma di consenso alla cessazione dell’accanimento terapeutico. In questo caso deve essere dato dai familiari. So bene che non esiste garanzia che la scelta dei familiari rispetti veramente la volontà dell’interessato, ma non esiste altro modo di accertarsi che questo sia il caso. D’altro canto, è prassi accettata nella pratica medica che, nella impossibilità di appellarsi alla libera volontà del paziente, come avviene con soggetti incoscienti o mentalmente alterati, ci si rivolga alle decisioni dei familiari.

Purtroppo, è un peccato che su questi argomenti non si possa fare un dialogo pacato e si rischi continuamente di essere trattati da assassini. Forse gioverebbe a tutti che si tenesse conto delle conoscenze biologiche e delle esperienze dei medici e, soprattutto, si ammettessero alla fine quelle che sono le peculiarità della vita umana, che vanno ben al di là di una visione che potrebbe sembrare fondata su presupposti materialistici.

Claudio Rugarli

* Stralcio dalla relazione tenuta il 27 novembre 2010 all’evento culturale organizzato dall’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri di Milano in occasione del centenario della fondazione



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