23 novembre 2010

E SE “COMUNE” TORNASSE A VOLER DIRE “DI TUTTI”? /2


Che dire in conclusione viste le considerazioni espresse nel numero precedente?(n.40 II ndr) Considerati anche il numero e la multidimensionalità dei temi trattati e la necessità di offrirne possibilmente una visione diacronica e accurata? La letteratura mi é venuta incontro ancora una volta, offrendomi lo spunto per una riflessione finale: qualcuno (non ricordo più chi: e me ne scuso) si è chiesto, infatti, perché “Milano non é più Milano”?

“Milano non è più Milano” forse perché l’idea stessa di città si dovrebbe reggere innanzi tutto sulla categoria di “cittadinanza”, mentre oggi sono proprio i cittadini i principali esclusi – in molti casi “autoesclusi” – da ogni livello decisionale che riguardi il fare città. A Milano i milanesi vivono, usano lo spazio urbano per muoversi, ma non si può dire è che abitino la città. Vivere e abitare la città non sono la stessa cosa. L’abitare comporta in primo luogo il riconoscimento dello spazio pubblico come qualcosa di intimo, di vicino: anche se non necessariamente proprio. La crisi della città, di Milano, si deve cercare nella dissoluzione di ciò che ne costituiva l’elemento principale: gli spazi pubblici e collettivi e le loro molteplici relazioni con quelli privati. La centralità nella pianificazione urbana è stata al contrario riservata solo agli elementi infrastrutturali (secondo una visione esclusivamente funzionalista) e gli spazi pubblici si sono configurati come non-luoghi, spazi che non sono, e non saranno mai “relazionali, storici, identitari”.

“Milano non è più Milano” perché i milanesi sono oggi persone estraniate, private della possibilità di riconoscersi: in una città che sembra aver perso definitivamente una dimensione “umana” dello Spazio. Un esercito quasi invisibile – per lo meno a livello di rappresentazione – di non cittadini ignorati dalla politica e che ignorano la politica; cui è inibito vivere un’esperienza collettiva quotidiana. L’assenza di una volontà di dialogare, di capire, di interessarsi alla “propria” realtà produce la disintegrazione della collettività: sostituita dall’atomizzazione del singolo. Ecco: individualismo, opportunismo e corruzione sono le categorie su cui oggi si regge il non-dialogo urbano: se per risolvere un problema bisogna in primo luogo assumerlo come tale, per costruire un dialogo bisogna in primo luogo riconoscerne le regole, prima delle quali è che si tratti di un processo plurale. Milano non è Milano: c’è la vetrina ma manca la città.

Ecco: veniamo presi da angoscia proprio quando si avvicinano le scadenze delle elezioni amministrative. E ci si accorge – dopo aver vivacchiato per anni – di essere assolutamente inadeguati e impreparati, senza idee precise, valide e alternative da proporre ai milanesi. Né, in ultima analisi, attori in grado di contrastare le candidature dell’avversario. È vero, voci interessanti ce ne sono: ma da cui purtroppo non riesce a scaturire un nuovo racconto, una nuova narrazione. Viva e condivisa. Siamo, un per l’altro, incapaci di ‘raccontare il nuovo’ con efficacia. A una cittadinanza che ormai si è (ma sarà poi vero?) assuefatta: che delusa e sfiduciata subisce in silenzio, si astiene. Tanto… Risultati? Dove? Il tutto che ci circonda è testimone muto di indifferenza pubblica. E rinunzia privata.

Ecco: la sudditanza della Politica rispetto all’Economia ha determinato rapidamente anche la crisi del modello di democrazia rappresentativa. Nessuno oggi pratica più l’utopia oggi: utopia concreta, da non intendersi come fuga (ovvero illusione incapace di superare la prova dei fatti) ma come ricerca di senso a livello collettivo. Perché meravigliarsi? L’immaginario collettivo è stato letteralmente «colonizzato» dalla logica economica: Mercato, Impresa e Capitale sono presentati e percepiti quasi potessero esaurire il sistema naturale, universale. L’unico immaginario possibile. Ogni aspetto della vita – e quindi anche il territorio: la città stessa – è concepito come mera risorsa materiale, di cui contendersi lo sfruttamento per generare profitto. Costi quel che costi.

Necessariamente, di conseguenza, assistiamo alla perversa commistione tra mercato senza regole e restringimento delle conquiste democratiche, civili e sociali: in presenza di una diffusa complicità tra potere politico, economico-finanziario e mafioso-criminale. In termini di città, di territorio, di ambiente? Saccheggio a tutti i livelli. Urge la ricerca di nuovi significati, di modelli alternativi a livello collettivo. Che però, affinché diventino possibili, occorre che si cominci a narrarli: poiché tutto ciò che l’uomo non racconta non esiste.

un possibile finale. Mi piacerebbe poter dire (si dirà che deliro): 1 – che è imprescindibile orientarsi (tutti: intellettuali, politici, società civile, semplici cittadini) verso una politica della speranza: pena il sentire un sempre più acuto senso di ‘esclusione sociale; 2 – che è imprescindibile non abbandonarsi dunque al nichilismo: ma dare spazio (potrà anche sembrare paradossale) a una ‘disperazione orientata’. In particolare: la politica rischia oggi di non trovare più cittadinanza proprio perché si é spenta la sua funzione civile, la sua azione demistificante: non appare sullo sfondo alcuna possibilità concreta di utopia sociale (che non sia quella, forse, di un’ambigua e riduttiva ‘liberazione del singolo’); 3 – che è imprescindibile una politica in cui sia centrale la forza utopica del desiderio: nella convinzione che ci sia un rapporto tra forza desiderante e realtà. Ovvero interpretare il desiderio quale fonte di visione: mezzo per conoscere il reale.

Partendo dalla vita vissuta (che viviamo) andare oltre: trovare qualcosa che la ecceda, la amplifichi: questo uno dei compiti essenziali della politica. Il che significa, certo, la presa d’atto di una sconfitta della politica in atto: ma anche l’apertura di una nuova prospettiva. Antimetafisica, antimessianica, liberatoria, utopica: ovvero – giustappunto – attenta al desiderio. Ecco: desiderio non è solo illusione utopica di un’esistenza migliore. La forza utopica che anima il desiderio può permettere ‘una nuova narrazione del mondo’ che superi la visione attuale, per dar voce a modelli altri di pensiero, di relazione e di condivisione.

Ma affinché questi nuovi modelli diventino possibili occorre cominciare a narrarli: tutti insieme. Quel che l’uomo non racconta non esiste: una nuova “narrazione del mondo” è laboratorio in fieri fondato su un ampliamento di ciò che si pensa sia la conoscenza, al di là del modello tecnicistico/economico dominate. Fondare dunque narrazioni che abbiano la pretesa di non spiegare qualcosa – come i grandi testi fondativi di utopie e religioni e ideologie – ma, piu’ semplicemente, di aggiungere senso.

Per iniziare e insieme continuare con nuove forme e nuove voci il grande racconto della libertà servono interpreti, servono organizzazioni in grado di intercettare le energie, ma soprattutto serve la capacità di tornare a raccontare ‘il punto di arrivo’. Serve una utopia realizzabile verso cui guardare, un sogno collettivo in cui credere: e, ripetiamolo, la capacità di raccontarlo. Serve ricordarsi che in ogni piccola battaglia si tratta di saper declinare alla singola realtà questo grande, complessivo, quadro di riferimento. La narrazione della liberazione di ogni uomo e dell’umanità nel suo complesso dal giogo della forza bruta, dai vincoli della natura è la storia di un cammino ancora tutto da percorrere, di grande attualità, un racconto che può affascinare e muovere le coscienze e i cuori delle persone.

P.S.: Non ho detto – e me ne scuso – nulla di nuovo. Come ho premesso, ho saccheggiato senza ritegno quanto già esplicitato dai molti amici e colleghi che scrivono in Eddymburg, in Arcipelago Milano, sui quotidiani… In particolare, nel finale, ho mutuato molte idee di Gabriela Fantato (poeta e critica milanese) e Gabriele Favagrossa (giovane sindacalista CGIL: impegnato nel sociale) espresse magistralmente nel n°20 della rivista La Mosca di Milano dedicato al tema ‘Desiderio e realtà’.

Pietro Salmoiraghi

 



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