9 novembre 2010

E SE “COMUNE” TORNASSE A VOLER DIRE “DI TUTTI”?


Milano? Già: ma quale Milano? Milano, “capitale economica e morale”? Milano da bere? Milano porta dell’Europa sul Mediterraneo? Milano policentrica?…. Mi ponevo queste domande – del tutto pletoriche – nel lontano 1993 in un articolo apparso su la Repubblica con il titolo nuovo prg: ma per quale milano? E (in un certo senso le stesse: anche se, forse, da un’angolazione differente) in un altro articolo – sempre su la Repubblica del 2001 – cara sinistra sei arida: riprendi a sognare… Parole al vento, ragionamenti senza futuro. Oggi le Elezioni Amministrative sono alle porte, il PRG è sostituito dal PGT: e siamo daccapo. «Non ci piace la Milano brutta, trasandata, lontana dagli standard di vivibilità delle metropoli europee», ha detto Valerio Onida il 25 ottobre 2010 (che credo sosterrò quale candidato sindaco: sempre che presenti, insieme a se stesso, un’accettabile squadra di Assessori). Giusto, condivisibile: ma non mi basta.

Dobbiamo porci ben altre domande: e azzardare delle risposte. Possibilmente non troppo provvisorie. Del tipo:

Perché Milano, rafforzatasi negli anni nel ruolo di “capitale della speculazione immobiliare e degli affari mafiosi (qualcuno si sente di negarlo?) rifugge da tutte quelle ‘buone funzioni’ indispensabili per un’accettabile vita degli abitanti: residenti o frequentatori?

Perché la Milano città madre della classe operaia e della borghesia produttiva (che come scrive Lodo Meneghetti nel bell’articolo – Quale Milano: pensieri sparsi che vi invito a leggere in Eddymburg.it – non è mai stata l’erede dell’Illuminismo: ma forse, a tratti, illuminata) non esiste più?

Perché Milano è diventata preda di un ceto finanziario, proprietario, commerciale che la ha trasformata in un centro di due abnormi mercati improduttivi: in cui la merce più preziosa sono il denaro e i terreni?

Per rispondere non vorrei usare solo parole mie: ma saccheggiando le idee dei molti che si sono a diverso titolo espressi. Non necessariamente citandoli esplicitamente: operazione doverosa forse, ma noiosissima. Li citerò ringraziandoli tutti alla fine. Qualcuno dice: una lunga notte urbanistica ha addormentato e paralizzato le capacità inventive delle amministrazioni locali, mentre il saccheggio del territorio è stato portato alle estreme conseguenze. Finché, per autoconsumo delle energie, il dissennato processo di sviluppo urbanistico ha trovato il suo limite ed è entrato nell’attuale fase di stress.

Già: ma questo clima ha favorito il sorgere dappertutto, dentro e fuori della cerchia spagnola, degli oggettoni pseudo architettonici degli internazionalisti (detti ormai archistar): in ultima analisi – so di essere provocatorio: qualcuno dirà persino invidioso – non veri professionisti indipendenti: ma attenti servitori degli imprenditori di turno, ai quali garantiscono il perseguimento fino all’ultimo centimetro cubo della smisurata volumetria concessa dall’amministrazione. Una densità di fabbricazione mai pretesa nemmeno dai più famelici speculatori del dopoguerra. Risultato? La città non funziona. E, ha ragione Onida, è brutta. La bruttezza, inseritasi nella città storica e dispiegata all’intorno, è peggiore della disfunzione: perché irrimediabile.

Oggi non possiamo che constatare la distanza smisurata con ciò che gli abitanti intendono per città: con i valori della vita quotidiana che diventano sempre più marcatamente individualistici. Tra l’idea di piano da una parte e gli abitanti dall’altra: spinti e obbligati verso i comportamenti consumistici imposti dalla speculazione messa in atto dal capitale. Se è vero che una città è allo stesso tempo il campo di azione e il prodotto più complesso di un modello di sviluppo economico e sociale discende che è nell’urbano che si può agire per avere modelli di sviluppo alternativi e/o per correggere gli squilibri prodotti dall’agire individuale ed egoista. La crisi economica, le crisi, ormai ripetute, del capitale finanziario hanno sempre finito per esplicitasi nelle città: ed è per questo che è proprio lì che possono essere meglio affrontate.

Già, il Capitale. Il Capitale globale ha assoluta necessità di una rete planetaria addetta al drenaggio di capitali sparsi, per unificarli, fino a raschiare il fondo del barile, fino al borsellino delle vecchiette. Per un siffatto “lavoro” vi sono grandi organismi appositi; essi ne traggono un profitto che non sarebbe realizzabile se fossero rispettate le regole e le leggi degli Stati. Queste, le vorrebbe il piccolo capitalista schiacciato fra i grandi, le vorrebbe soprattutto il piccolo “investitore” spennato, ma il Capitale non le sopporta. Perciò la regola generale è che ognuno si faccia i fatti propri, all’ombra di leggi che non contano niente, fino a quando qualcuno scivola sullo sdrucciolevole mercato dei capitali. Quando il meccanismo s’inceppa da qualche parte per mancanza di plusvalore in grado di “remunerare” il capitale, scoppia, sì, uno scandalo, ma il sistema nel suo insieme continua imperterrito a macinare capitali, aziende, banche, risparmiatori. All’atto dell’incidente tutti si scoprono assetati di regole e leggi, che valgono lì per lì solo per il capitalista fesso che ha fatto lo scivolone, mentre per tutti quanti gli altri il mondo continua a girare come prima. Il “colpevole” non si troverà, semplicemente perché non c’è, sarebbe come portare in tribunale il capitalismo, cosa ovviamente assurda.” (Parmalat, tentata fuga dalla legge del valore. I: “n+1” n. 13)

Ciò detto: oggi sentiamo in molti, se non tutti, l’esigenza di un serrato confronto sui valori che si intendono perseguire. Domanda oziosa: uno strumento nuovo – com’è il PGT – è davvero quello che permetterà di governare positivamente – e democraticamente? – il territorio? O è giusto quello che meglio favorisce le manovre del Capitale? (vedi il lapsus freudiano che fa parlare ad esempio gli estensori di «fabbisogno edificatorio» e non di «fabbisogno abitativo»?). Pretesto dunque per l’ennesima volgare speculazione immobiliare a favore dei soliti noti; il nuovo PGT, proteso – con un vero e proprio slancio futurista – ad attrarre 700.000 nuovi abitanti (pura razza padana, supponiamo) grazie al quale, più prosaicamente, si concede la possibilità di edificare un po’ dovunque milioni e milioni di metri cubi (destinati nell’immediato a trasformarsi in ipoteche e garanzie bancarie per assicurare serenità contabile agli inquieti immobiliaristi della città).

Perpetuando l’orribile campionario di veri e propri mostri urbanistici previsti o in fieri: i grattacieli sofferenti e deformi di City Life, il triste quartiere di Santa Giulia (ecologico e à-la-page nelle ambizioni: ma costruito su un’area contaminata e non bonificata), il progetto dell’Expo, impudentemente dedicato ad agricoltura e alimentazione (la fame nel mondo), il nuovo Centro Direzionale (snobbato dalla Moda). E via discorrendo. I progetti citati – non naturalmente gli unici in assoluto – e il ruolo istituzionale di tutte le archistar globalizzate pare proprio quello di verniciare di scintillante desiderabilità collettiva alcuni interessi particolari. Che naturalmente nella vulgata neoliberale (senza accorgersi che la finanziarizzazione della società tutta – e non solo dell’economia – non necessariamente produce lavoro e benessere: anzi) poi dovrebbero scendere a cascata come manna a beneficiare tutti.

Tra l’altro – per inciso – dobbiamo annotare che l’azione di pianificazione urbana a Milano é stata più volte compromessa dall’assenza di “sincronia spazio-temporale” (ovvero la dilatazione eccessiva del lasso di tempo che intercorre tra la fase progettuale e la realizzazione). Qui potrebbe sorgere una domanda: è immaginabile un mondo partecipe della politica cittadina ma lontano dalle ideologie? Parlare di programmi senza chiederci chi terrà in mano il telecomando.

 

Pietro Salmoiraghi



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