9 novembre 2010

IL PARCO CITYLIFE: UN RESIDUATO VERDE


Una decina di giorni fa, all’Urban Center, sono stati presentati gli otto progetti finalisti del concorso per il Parco CityLife e, tra di essi, è stato proclamato il progetto vincitore, quello del gruppo angloamericano Gustafson Porter. Secondo e terzo classificati lo studio portoghese Proap di Joao Nunes e lo svizzero Girot. Ciascuno degli otto progetti è stato presentato in modo molto (troppo) sintetico su altrettanti pannelli, recanti una breve descrizione, una visione d’insieme e un piccolo plastico (in qualche caso assai poco rappresentativo). Si spera che una prossima esposizione, o pubblicazione, dell’intera documentazione di ciascun progetto ci consenta di apprezzarne più compiutamente i caratteri, le specificità, i criteri ispiratori.

Non v’è dubbio che il risultato di questo concorso, per un’area verde destinata a diventare la terza per importanza, dopo gli storici Giardini Pubblici e Parco Sempione, dell’area urbana milanese (diciamo della Milano interna ai viali delle Regioni), meriterebbero di essere conosciuti e studiati un po’ più pacatamente: dovrebbero rappresentare per Milano, almeno sulla carta, una sana ventata di cultura internazionale, un tentativo al massimo livello di coniugare il nuovo paesaggismo con l’identità e la cultura urbana milanese. Va ricordato che al concorso hanno partecipato un’ottantina di gruppi, da tutto il mondo e che, come l’Aiapp (Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio) ha osservato, degli otto finalisti selezionati, l’unica italiana è di nome e cultura slovena.

Tutto ciò premesso, e con tutto il rispetto per questi grandi protagonisti dell’architettura del paesaggio contemporanea e in particolare per il gruppo vincitore Gustafson Porter (posso sbagliarmi, ma questo progetto, mi sembra più firmato Neil Porter che Kathryn Gustafson, e un po’ mi dispiace, soprattutto dopo aver visto della Gustafson la bellissima “Diana Memorial Fountain” ad Hyde Park) e in attesa comunque di vedere il progetto definitivo dell’area, tra qualche mese, devo dire che le mie perplessità, che erano tutte a monte del concorso, e che riguardano il Parco CityLife e tutte le altre aree verdi di cui questo parco è un po’ il paradigma, rimangono intatte, per quanto affatto nuove né originali.

Vado ripetendo da anni, ad esempio, insieme a molti altri del resto, che è essenziale che il paesaggista possa essere presente nell’equipe di progettazione, con pari dignità, fin dall’inizio del processo progettuale, anziché essere chiamato a posteriori a “mitigare” col verde un (molto spesso) cattivo progetto urbanistico. Nel caso specifico di CityLife questo tema era venuto all’attenzione dell’opinione pubblica con molta chiarezza, quando era apparso evidente che, dei tre progetti giunti alla selezione finale, era quello di Renzo Piano che presentava un sistema del verde avente dignità e carattere di vero parco urbano, pensato e progettato fin dall’inizio con attenzione prevalente al suo rapporto con la città, e non solo con i nuovi edifici in progetto.

Nonostante la dimensione complessiva, ragguardevole per Milano, del Parco CityLife (170.000 mq. pari circa alla superficie dei Giardini Pubblici, anche se circa 30.000 di essi insistenti “su soletta”, cioè su box interrati, e quindi ecologicamente meno pregiati) mi rimane l’impressione che si tratti pur sempre di un “verde di risulta”, un verde risultante appunto da un’operazione urbanistica in cui al centro dell’attenzione (non solo dell’operatore, ma anche in qualche modo dell’amministratore pubblico, che ne è oggettivamente corresponsabile) sta la dislocazione ottimale della maggior volumetria possibile e non la progettazione di un grande parco per la città, di un’area verde ottimale per compattezza, per fruibilità e accessibilità urbana, per valore ecologico.

E’ un’impressione, quella del “verde di risulta”, che vale un po’ per tutti i cosiddetti “parchi della trasformazione”, i parchi ricavati all’interno dei PRU, dei PII, degli interventi sulle aree industriali dimesse. E siccome col nuovo PGT la logica dei mega interventi privati diventa la logica dominante (coi privati che finiscono per avere una forza contrattuale maggiore dell’ente pubblico, che sulla carta dovrebbe avere capacità di regia e di tutela dell’interesse pubblico e che di fatto appare invece sempre più debole e soccombente), ho il fondato timore che il nuovo verde urbano milanese possa essere sempre più spesso del tipo “verde di risulta”, magari firmato, pregiato e carissimo (sia per costo d’impianto che, soprattutto, di gestione, e questo sarebbe un altro bel tema da approfondire), ma pur sempre di risulta, per quel vizio d’origine sopra descritto.

Vizio d’origine che si porta appresso un altro rischio, tutt’altro che trascurabile: il rischio che il “mercato” (vedi Santa Giulia) fermi a metà le iniziative edilizie e quindi di riflesso anche i loro parchi pertinenziali; il rischio dunque che il futuro verde milanese possa essere costituito da parchi: 1. un po’ casualmente e disorganicamente distribuiti sul territorio, in relazione alla casuale distribuzione delle iniziative edilizie; 2. firmati e carissimi; 3. spesso incompiuti. Continuo a ritenere che Milano non abbia sufficientemente riflettuto sull’esperienza e sul metodo (di progettazione, realizzazione e gestione) del Parco Nord, del Boscoincittà e del Parco delle Cave (prima dell’abbandono di Italia Nostra), non a caso i parchi più amati dai milanesi.

 

Francesco Borella

 



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