9 novembre 2010

LA RETORICA DEL RECUPERO


C’è un tema che ricorre spesso nei discorsi dei candidati alle primarie per la poltrona di sindaco. In buona sostanza si critica la vocazione edificatoria del PGT e dell’amministrazione in carica, sostenendo che prima di costruire nuovi edifici bisognerebbe utilizzare quelli vuoti, sfitti o addirittura terminare quelli incompiuti.

Boeri dal Corriere dell’8 settembre: “Prima di costruire nuovi uffici, nuovo terziario, nuovi grandi complessi residenziali risolviamo il problema dello sfitto”. Sacerdoti nel suo programma dice che “si darà la priorità al recupero degli edifici esistenti rispetto alla costruzione di nuovi”. In maniera simile si sono espressi gli altri candidati. Si tratta a mio parere di argomenti assai retorici, sicuramente elettoralistici, e forse un po’ capziosi. Intendiamoci, il problema c’è, ma sono le soluzioni proposte a essere poco convincenti e irrealistiche.

Milano ha circa 80.000 appartamenti vuoti e moltissimi sono gli edifici per uffici completamente inutilizzati. Penso tra i tanti esempi ai “ligrestini”, quei complessi di terziario che sono cresciuti a ciuffi lungo le tangenziali milanesi negli anni ottanta, tutti uguali e facilmente riconoscibili perché caratterizzati dalla mancanza di tamponamenti esterni negli ultimi due piani. In privato vi spiego anche il perché… La maggior parte di questo patrimonio edilizio ha, nella migliore delle ipotesi, trenta anni di vita, molti dei quali passati in totale abbandono e mancanza di manutenzione. Inoltre essendo stati costruiti secondo vecchie normative anche dal punto di vista prestazionale sono inadeguati e poco efficienti. Nel caso degli edifici per uffici il dimensionamento degli spazi, il layout e in ultimo l’estetica degli stessi non corrisponde alle esigenze contemporanee. Infine la loro localizzazione attuale può non coincidere con le richieste del mercato.

Il recupero di questi volumi comporterebbe un adeguamento normativo, non solo per ciò che riguarda gli impianti, ma anche per gli aspetti di efficienza energetica. Si renderebbe inoltre necessario un recladding, leggero o pesante a seconda delle situazioni. Tutto ciò ha un costo paragonabile a quello delle nuove costruzioni, che in più hanno il valore aggiunto di essere nuove, appunto. Non vivendo -per il momento- in una società stalinista, non è possibile –né sarebbe ragionevole anche il solo pensarlo- obbligare gli operatori del settore immobiliare a investire nel recupero di vetusti oggetti edilizi, privi di alcun valore architettonico. Bisogna quindi percorrere altre strade.

A mio modo di vedere la soluzione ottimale è quella di costruire nuovi edifici, previa demolizione di una egual quota di esistente. Ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione, per indicare la modalità di intervento. Sostituzione del tessuto edilizio, se ragioniamo in termini urbanistici. Purtroppo nel PGT non vi è una norma in tal senso, ma questa potrebbe essere introdotta con le osservazioni. So bene che le probabilità che un’osservazione di questo genere possa essere accolta sono assai scarse, ma provo a sintetizzarne i concetti base.

Va prevista e realizzata una ricognizione sul patrimonio edilizio esistente individuando ciò che è sfitto, inutilizzato, dismesso o persino incompiuto. Il TUC (Tessuto Urbano Consolidato) va diviso in zone relativamente piccole (più dei NIL – Nuclei di Identità Locale). Quando si presenta una nuova concessione edilizia bisogna verificare che all’interno della zona in cui si intende realizzare la nuova costruzione non vi sia un edificio inutilizzato. Se non c’è, nessun problema, si procede con la concessione; nel caso in cui vi sia un edificio dismesso di pari consistenza volumetrica rispetto a quello progettato, il Comune dovrà verificare la possibilità di realizzare il nuovo intervento attraverso una demolizione e ricostruzione dell’esistente. Il meccanismo attraverso cui attuare questa operazione va studiato, ma si potrebbero trovare incentivi sugli oneri (andando a scomputare i costi di demolizione e di bonifica) o di carattere tributario (quando dovesse attuarsi il federalismo fiscale).

Ci vorrebbe infine una norma per evitare le incompiute: se non si porta a termine l’opera oggetto di concessione entro un certo numero di anni vi è l’obbligo di demolizione di quanto parzialmente realizzato e se vogliamo essere crudeli possiamo anche prevedere la successiva cessione gratuita dell’area al Comune. Tutto ciò per evitare che si ripeta quanto successo in occasione dei mondiali di “Italia ’90”. Penso al più noto esempio di edilizia incompiuta milanese. Se si percorre la Tangenziale Est poco prima dello svincolo di via Mecenate si può osservare lo scheletro abbandonato in mezzo al verde di quello che doveva essere un hotel con 300 stanze distribuito su 240 mila metri quadrati. Doveva, perché il progetto fu avviato con la legge speciale per i mondiali nella seconda metà degli anni ottanta. Ma non fu mai ultimato.

 

Pietro Cafiero

 



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