19 ottobre 2010

AFFARI E POLITICA: DONNE MAI AL VERTICE


 

Da una parte il Sindaco, donna, e dall’altra parte quattro candidati, uomini, ai nastri di partenza delle quasi imminenti primarie. Da una parte un Sindaco che usa il cognome del marito, a conferma che non è il mero dato biologico a fare la differenza, e dall’altra parte l’assenza totale di candidature al femminile alla guida di Milano. Peraltro la questione di fondo non è neppure quella, di per sé, che non vi sia alcuna candidata alla polis milanese pur a fronte di potenziali candidate qualificatissime per competenza e determinazione.

Il problema è l’assenza generalizzata delle donne nei luoghi in cui si decide. In estrema sintesi, un Sindaco di genere maschile non rappresenterebbe motivo di discussione se, ad esempio, avesse al suo fianco un Vicesindaco di genere femminile ovvero avesse una giunta comunale mista e composita, come lo è la società, ovvero ci fosse un consiglio comunale misto e composito, idem come sopra, grazie a liste con donne e uomini alternati tra loro per la conseguente scelta degli elettori.

E’ la somma che fa il totale diceva Totò oppure, per dirla più sobriamente con Chiara Saraceno, il problema è il monopolio maschile. E se poi vogliamo dirlo usando il concept dell’UDI, Unione donne in Italia, la situazione è quella dell’abuso di una posizione dominante e della corrispettiva necessità di portare ad attuazione la democrazia paritaria. E per coloro che non desiderano vedere il nesso di causalità, ancorchè non immediato e diretto come diciamo noi avvocati, tra assenza delle donne nei luoghi in cui si decide e svilimento del corpo femminile esposto così alla violenza è forse il caso di ricordare che l’una e l’altro si alimentano a vicenda. Peraltro l’assenza e la violenza “non solo riflettono la cultura (…) ma contribuiscono a crearla (…) riproducendo una iniqua distribuzione del potere tra i sessi” come ribadisce, non Simone de Beauvoir o Luce Irigaray, ma il Parlamento Europeo con la Risoluzione del 3 settembre 2008.

Detto questo si vuole continuare a non perdere occasione per affermare l’importanza per tutti, e non solo per le donne della compartecipazione fifty fifty ai destini della polis. Le donne nella funzione istituzionale non rappresentano il proprio genere, e sotto questo aspetto è opportuno proseguire nel proporre che abbia fine parlare di “rappresentanza” femminile, termine che alimenta la fuorviante evocazione che le donne debbano essere presenti nei luoghi in cui si decide per rappresentare il proprio sesso anziché rappresentare e svolgere i compiti e la funzione istituzionale cui sono deputate, sia che si tratti di una giunta, di un ente locale o di un consiglio di amministrazione, di una società quotata in borsa ovvero della direzione generale di un consorzio di comuni o di un collegio sindacale di una società di capitali.

C’è qualcuno disposto, per di più oggi, ad accettare di non incrementare, almeno del 7%, il PIL? Il BIL, il cosiddetto benessere interno lordo di una comunità, pare sia ancora più elevato e gli economisti sono pressoché unanimi nel quantificare nella misura sopra citata l’incremento di benessere collettivo derivante dall’ingresso delle donne nelle posizioni apicali. Insomma la misoginia costa e forse i vantaggi non sono di pochi ma il danno è certamente di molti. Possiamo dire che è un morbo che ammorba?

Di recente al Festival del diritto a Piacenza, una epidemiologa inglese, Kate Ticket, caschetto biondo alla Raffaella Carrà stile tuca tuca e pugno di ferro in guanto di velluto, ha illustrato i risultati di una ricerca realizzata nell’arco di oltre venti anni con la quale ha dimostrato, anche in termini di parità ovvero di minore disparità di trattamento tra donne e uomini, i vantaggi collettivi delle società che praticano minore diseguaglianza tra i sessi.

 

Ileana Alesso


 



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