5 ottobre 2010

FEDERALISMO NOSTRANO: ADDOLCIRE LA PILLOLA O RISPUTARLA?


 

 

Bisogna riconoscere che il “federalismo” in salsa padana si è imposto come una delle idee portanti della perdurante egemonia della destra. Prodotto originale ed esclusivo della Lega, succedaneo della meno praticabile “secessione del Nord”, si è via via accreditato trasversalmente nel discorso politico sino a penetrare nei programmi di partiti avversari, nelle invettive d’intellettuali barbuti e persino nei messaggi di alte cariche dello Stato per quanto blandito mediante l’aggettivo “solidale”. A loro volta movimenti speculari a sostegno delle ragioni del Sud si muovono nella stessa logica di difesa a priori di veri o presunti interessi territoriali. Al fondo della pseudocultura leghista sta infatti l’assunto, variamente colorito con espressioni folkloristiche e rituali, che “ciascuno è padrone in casa propria”.

Non a caso lo sbocco politico e legislativo di tale concetto è il “federalismo fiscale”. Il punto di partenza dell’impostazione, o imposizione, leghista si situa infatti sul lato delle entrate del bilancio pubblico allargato mentre viene volutamente messo in ombra il lato delle uscite. La preoccupazione principale riguarda la difesa acritica della ricchezza là dove c’è e finché c’è, nel disperato tentativo, al fondo, di esorcizzare la possente tendenza livellatrice portata dalla globalizzazione. Nella dimensione nazionale il retro pensiero è simile: sin’ora sprechi e sperperi hanno avvantaggiato il Sud e “Roma ladrona”: ora il dovuto risarcimento tocca a “noi” in quanto produttori virtuosi e infaticabili di una ricchezza per altro non più affluente e sovrabbondante. Dunque imposte e tasse, quando non evase o eluse, devono restare in capo agli enti territoriali e ivi trattenute il più possibile. Non importa se tali enti siano inutili (come le Province), polverizzati (come gran parte dei Comuni), burocratizzati e ministerializzati (come le Regioni), inesistenti (come le Città Metropolitane) e che le competenze e le funzioni siano confuse, sovrapposte, rimpallate, disperse in una miriade di sotto-enti non elettivi, con l’effetto di disseminare la spesa in mille rivoli a scapito di efficacia, efficienza e controllo.

Il modello clientelare e assistenzialista di gestione della spesa pubblica, che storicamente ha dominato nelle regioni meridionali, non viene pertanto abolito quanto invece innestato in un contesto sociale e culturale caratterizzato dalla piccola impresa paternalistica e dalla ristretta comunità locale. I sempre più frequenti episodi di familismo e favoritismo nelle istituzioni locali e regionali amministrate dalla Lega come pure la tenace difesa delle Province, allo stato pressoché inutili, depongono in questo senso. E’ possibile allora pensare un’alternativa che non si limiti ad attutire il colpo con l’ossimoro del “federalismo solidale” bensì risponda con una decisa contromossa? Proviamo ad azzardare il seguente ragionamento.

“Per aspirare alla giusta esigenza di autogoverno senza ricadere nel (piuttosto che nel federalismo) feudalesimo occorre richiamare intanto i diritti di cittadinanza: io sono cittadino del Comune, della Provincia, della Regione, dello Stato, dell’Europa, del Mondo. Ho diritto di voto per ciascuno di questi livelli (tranne l’ultimo) da ciascuno dei quali mi aspetto responsabilità precise e funzioni ben definite a fronte di un’adeguata tassazione. I confini hanno ancora una validità ma non sono barriere bensì contenitori nei quali misurare democraticamente il grado di soddisfazione dei cittadini (sarebbero semmai da ottimizzare, ad esempio riaccorpando le province spacchettate e i comuni piccoli e piccolissimi fondati quando i mezzi di comunicazione erano a trazione animale). Potrei dunque riconoscermi in una “identità” (altra parola-chiave della narrazione leghista) non isolata ma plurima, non chiusa ma aperta, capace di comprendere e confrontare le ragioni dell’altro sia vicino che lontano. Mi sentirei allora maturo per superare il piccolo patriottismo, regressivo sia verso l’unità nazionale che l’unicità mondiale, per sentirmi insieme uomo del borgo e cittadino del mondo capace di agire localmente e nel contempo pensare globalmente.”

Per coagulare una tale inversione di rotta bisognerebbe però, piuttosto che indorare la pastiglia avvelenata, passare direttamente all’antidoto. Avanzare una controproposta che, concentrando l’attenzione sul versante della spesa, contempli la selezione dei relativi centri mediante semplificazione istituzionale, razionalizzazione burocratico-amministrativa, riduzione dei costi impropri della politica, riqualificazione delle assemblee elettive come organi di indirizzo e controllo. Dunque rifiutare un’improbabile mediazione, un “federalismo si ma non troppo” (anche i preti potranno sposarsi ma solo a una certa età, per dirla con Lucio Dalla) e riscoprire la soluzione che, come l’uovo di Colombo, si trova già dentro il tanto vituperato Titolo V della Costituzione vigente, e precisamente nei principi di sussidiarietà (verticale), adeguatezza e differenziazione di cui all’art. 118 comma primo.

 

Valentino Ballabio



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