28 settembre 2010

UNA SCUOLA DI CULTURA POLITICA E UN ORATORE “TROPPO COLTO”.


 

La scuola è quella della Casa della Cultura, “luogo del cuore” (e della mente) dei milanesi a scavalco di generazioni e addirittura quasi di epoche culturali e politiche diverse, nonché di quella rottura “paleontologica” di cui ci dice, in riferimento alla cultura, Asor Rosa nel suo “Il grande silenzio”. La presentazione dei corsi, recentissima, è tenuta alla Festa Democratica di Milano ed è affidata al segretario stesso della Casa e a un oratore, dirigente di partito, intelligente e colto, ahimè, mi si dice, “troppo colto”.

Il corso è magnifico, spazia nella vastità del sapere ma non divaga, tiene dritta la barra, vuole essere ed è una scuola di sinistra. I relatori sono tra i migliori, autorevoli e affermati ma non accademici: molti sono giovani, però hanno già un nome. Aumenta, possiamo dirlo, anche per questa iniziativa, il debito di Milano (non solo della sinistra politica) nei confronti di questa “istituzione” già “onusta di glorie”, ma ancora pimpante, giovanile nell’ardore con cui vuole cimentarsi con le più intricate questioni.

Massimamente intricata è la faccenda del rapporto tra la politica e la cultura, ovvero del loro disastroso divorzio, cosa che oggi relega la politica nelle sfere basse delle attività umane, mentre già prima ne occupava orgogliosamente quelle più alte. La questione da sbrogliare viene affidata appunto a un oratore all’altezza, Gianni Cuperlo, che la svolge con finezza, con eloquio fluido ed elegante, con leggerezza e con passione. Tanto bravo che, per qualche momento, attratto dalla “grazia” (cioè dalla “felicità”, appropriatezza e creatività) del suo parlare, mi distraggo, perdo qualche concetto, dissociando, come direbbero i linguisti, il significante dal significato. Significati che però non mancano, anzi formano una trama larga e ben costrutta. Tanto bravo che, a un certo punto, mi rivolgo alla mia vicina di sedia e, per un moto spontaneo e quasi irriflesso, le chiedo: “Ma perché, scusa, non è lui il segretario del partito? Che gli manca?”. “Troppo colto”, mi sibila rapida lei, godendo del suo non ingenuo paradosso. “E già”, faccio io, dandole ad intendere di voler chiudere lì la questione.

Invece, vorrei che si aprisse, la questione. Perché non credo affatto che quello sia davvero un paradosso. Anzi, secondo me, bisogna prendere la cosa proprio alla lettera: alla politica non servono le persone “troppo colte”; alla politica, potremmo, esagerando, aggiungere, non serve la cultura. O meglio, potremmo affermare che oggi e nell’epoca nuova che stiamo vivendo, l’epoca, per dirla con Scalfari, degli imbarbariti, in attesa che arrivino i nuovi barbari, è la cultura in generale che non serve. E’ la cultura degli ultimi due-tre secoli, la cultura dei moderni, che non serve. Non serve, cioè, la cultura critica, che per “noi” è sinonimo stesso di cultura, l’unica accezione di essa che siamo disposti a prendere in considerazione. E, d’altra parte, quella cultura ha fatto il suo tempo, come l’ha fatto la società che l’ha espressa.

Quella storia è finita (non la storia in quanto tale, come pretendeva il filosofo nippo-americano). E’ una storia che nasce da una società divisa in classi, che ha il conflitto come potente motore interno e che elabora un senso comune per cui si crede, per secoli si è pensato, al di là e oltre qualsiasi sventura, con il più grande ottimismo, che il domani sarebbe stato comunque migliore dell’oggi. Era proprio un’altra epoca! L’epoca in cui gli apparati culturali, l’intellighenzia e le grandi personalità geniali erano chiamati a dare un’interpretazione credibile delle cose, perché, nel conflitto, solo chi capiva come andava il corso del mondo, poteva ambire a trasformarlo: capire il passato, organizzare il presente, costruire il futuro di un mondo più libero e giusto.

Oggi, in una società non di produttori, operai-lavoratori e borghesi, ma di consumatori, cioè di clienti, la dialettica sociale si è persa, perlomeno si è sfrangiata, dispersa. E, quindi, ecco che anche la cultura, senza ossatura e senza gerarchie, pone tutto sullo stesso piano, o meglio sugli stessi scaffali. Non è che non c’è la cultura, c’è. Ci sono anche gli intellettuali (sarebbe meglio gli cambiassimo anche il nome, perché questo ha una precisa connotazione e si riferisce proprio a quella cultura del progresso che non c’è più) e ci sono pensieri e strumenti per la loro diffusione, anzi enormi e complesse macchine adibite alla comunicazione (e manipolazione): la società stessa è detta società della comunicazione. Insomma, nell’epoca massmediologica abbiamo il più straordinario assortimento di prodotti culturali ma non abbiamo la cultura. Quando è perché si è prodotto tale orrendo prodigio? Si è trattato davvero di una rottura “paleontologica? C’è stato un evento, una catastrofe, che ha fatto estinguere la cultura, siccome il grande meteorita avrebbe, cambiando le essenziali condizioni ambientali dell’intero pianeta, prodotto l’estinzione dei mammiferi già dominatori del mondo? E questo cataclisma si è verificato noi stessi viventi e negli anni nostri? E noi, ne siamo vittime o complici?

Comunque, siamo precipitati nel “grande silenzio”!

Si, ma non siamo ancora del tutto finiti, siamo almeno in grado ancora di dibatterci, se non di batterci! La Casa della Cultura reagisce, trova la forza di interrogarsi, il coraggio di guardare nel fondo oscuro delle cose. Ma più a fondo, secondo me, deve farlo. Qui non si tratta più della politica che si è corporativizzata, che è senza ambizioni, che, come tutto, si è relegata nella sola dimensione del presente e semmai troppo dedita all’esercizio e spartizione del potere. Qui, non si tratta di vedere una sola crisi, quella della politica, ma di vederle entrambe le crisi, della politica e, ancor prima, della cultura. Cioè di vedere criticamente (!) il modo come ci stiamo concretamente organizzando la vita, oggi, su questa crosta già (e forse ancora) meravigliosa.

Il capitalismo non ha solo i secoli contati, come afferma non troppo ironicamente Giorgio Ruffolo. Se le contraddizioni che genera sono così tanto esplosive, i secoli ce li ha solo alle spalle, davanti un breve e rovinoso futuro. Le contraddizioni non sono solo quelle che eravamo abituati ad affrontare, quelle sociali o di classe, assistendo oggi a una crescente sperequazione nella divisione della ricchezza e all’aumento di quote di persone escluse ed emarginate; i problemi più difficili e minacciosi provengono dalla crescita demografica incontenibile e da un modello di vita (che, in quanto tale, vale per tutti, anche per quelli che mai se lo potranno permettere) estremamente dispendioso e dissipativo, insostenibile: termodinamicamente insostenibile.

“Nella storia dell’umanità (il nostro attuale) è il primo sistema di sfruttamento delle risorse naturali che tende, per sua intima logica, alla distruzione finale della Terra… (Piero Bevilacqua). Se questo è vero, ed è vero non in una prospettiva remota, ma nell’immediatezza, nel senso che è già iniziata una contabilità negativa fra ciò che consumiamo e le risorse che la natura riesce a riprodurre, allora non poco deve essere cambiato. Ciò esige che gli umani presto si dotino di un nuovo sguardo sul mondo, sappiano creare una cultura altra e stili di vita profondamente diversi. E questo è il compito che aspetta ai “nuovi barbari”. Saranno essi capaci di inventarsi, per riprendere ancora delle espressioni di Bevilacqua, un “antropocentrismo sostenibile”, rispettoso dell'”economia della natura”? Speriamo. Però i nuovi barbari devono spicciarsi ad arrivare, gli imbarbariti, infatti, cioè noi, non scherziamo: siamo in grado di fare danni tremendi, decisivi, anche fatali.

Allora, ed è la seconda e ultima osservazione che faccio alla scuola di formazione, com’è possibile l’omissione-rimozione, nonostante la straordinaria ricchezza di temi che essa propone, di ogni riferimento alla questione che nello stesso tempo più ci minaccia e più di ogni altra ci racconta della crisi e della stessa via da intraprendere per uscirne? Intendo, com’è possibile la mancanza di ogni riferimento ai temi della distruzione dell’ambiente e dell’ecologia?

Consoliamoci infine: potrebbe valere l’adagio horderliniano, secondo cui ciò che ci perde, più ci può salvare. A patto però di un’autentica rivoluzione copernicana, per cui ritorniamo a pensare noi stessi come semplici enti naturali e la natura come ciò che ci comprende nel suo seno, e in ogni senso viene prima. Insomma, se saremo capaci, come si dice, di non segare il ramo su cui stiamo seduti.

 

Arturo Calaminici



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