14 settembre 2010

I PARCHI DI LONDRA: E MILANO?


 

Una delle problematiche più scottanti a emergere tra le sfide planetarie del Terzo Millennio evidenziate dalle Nazioni Unite con la Dichiarazione omonima dell’anno 2000 è senza dubbio quella relativa alla tutela ambientale. Non vi è dibattito che manchi di sottolineare i rischi e le conseguenze del surriscaldamento globale e delle tecniche di sfruttamento del suolo terrestre spesso impropriamente intensive. Del resto, termini come “sostenibilità”, “biodiversità”, “conservazione” e “salvaguardia ambientale” sono ormai entrate a far parte del linguaggio comune, in particolare se legate a iniziative e mega eventi che, come è il caso della campagna mediatica dell’Expo 2015, sfruttano questi grandi temi per attrarre consenso e dare maggior spessore ai progetti intrapresi a livello nazionale e internazionale. Se i timori degli ambientalisti in merito a un’ulteriore cementificazione di Milano hanno, ormai da parecchi mesi, risollevato lo spettro di “città grigia”, c’è da chiedersi come si possano valorizzare ed estendere quegli angoli di verde ancora troppo rari e discontinui che oggi vi compaiono, proprio in vista di un evento che promette una “green rejuvenation” per la stessa città.

Penso a realtà come quella del Regno Unito dove il verde, fatto di parks, gardens, stagni e percorsi pedonali, sembra aver tradizionalmente conservato il suo ruolo all’interno della sfera di vivibilità urbana. Non mancano certo palazzi, uffici e grandi mall, ma la “greenery” è certamente parte integrante della planimetria urbana e componente insostituibile del vivere quotidiano, a partire dalla capitale con i suoi Hyde Park, Regent’s Park e St James’s Park, tanto per cominciare.

È passata solo qualche settimana dal mio ultimo viaggio a Londra e, a ripensarci, invidio agli inglesi la possibilità di trascorrere il tempo libero in tranquilli parchi non troppo lontani da casa, invidio la possibilità data a un amante della corsa di fare jogging evitando l’asfalto della strada e lo smog delle auto, o l’opportunità data a uno studente di leggere un buon libro all’ombra di un gazebo pubblico. E il tutto in centro città. Invidio la pulizia degli spazi di verde pubblico, dove i bambini possono correre e giocare senza paura di cadere e graffiarsi con i cocci di vetro di una bottiglia abbandonata a terra in frantumi, invidio quel misto di sicurezza, relax e svago che si conserva in quegli angoli metropolitani colorati da una varietà di fiori e cespugli e animati dalla presenza di cigni, anatroccoli, passerotti cinguettanti e scoiattoli saltellanti.

Se la valorizzazione della componente verde è pratica consolidata e ormai usuale per ogni landscape architect che si rispetti, non mancano altresì in Inghilterra laghi, distese rurali, veri e propri siti naturali e orti botanici dedicati alla riproduzione e conservazione della biodiversità. Ne sono un ottimo esempio i Kew Gardens, in prossimità della cittadina di Richmond upon Thames, un complesso di giardini, orticelli coltivati e serre che insieme costituiscono un orto botanico interessante e ben curato della superficie di 120 ettari. Con quarantamila varietà di piante e quattordicimila alberi importati da ogni parte del mondo, una delle più varie collezioni floreali e serre che riproducono i diversi climi del pianeta, i Kew Gardens fanno parte del Patrimonio dell’Umanità identificato dall’UNESCO e rappresentano inoltre un polo di ricerca scientifico-naturalistico unico al mondo. Tra i più illustri progetti di salvaguardia della biodiversità l’importante partnership avviata con la Millennium Seed Bank per la realizzazione del più grande piano di conservazione ex situ di specie vegetali in via di estinzione, iniziativa che il Regno Unito ha recentemente presentato al mondo nella cornice espositiva dell’Expo 2010 di Shanghai.

Ed eccomi personalmente in visita ai Kew Gardens. Con la sua struttura in vetro e metallo la grande serra tropicale dalla quale inizia il mio percorso di esplorazione richiama nel suo stile vittoriano il celebre Crystal Palace di Paxton. L’umidità che si respira entrando è molto alta e l’aria è resa pesante da un odore penetrante di foglie e terriccio bagnato. Mi lascio incuriosire dalle etichette illustrative delle varietà vegetali che incontro, ogni albero è ordinatamente esposto e ne sono descritte le principali caratteristiche, la tassonomia delle diverse specie è ricreata all’interno delle serre per ciascuna area climatica. Non manco di notare i cartelli illustrativi che accompagnano la mia visita, esempio dell’efficienza con la quale gli inglesi raccontano e valorizzano i propri luoghi rendendoli siti per l’apprendimento ad alto potenziale informativo ed educativo.

Termino la mia visita cercando di immaginare l’orto botanico planetario descritto nel Masterplan disegnato per l’Expo 2015 e mi chiedo se Milano, ancora così distratta dalle questioni relative alla governance dell’evento e già in ritardo rispetto all’analisi dei terreni per l’importazione delle varie specie che il sito espositivo ospiterà, non possa imparare dall’esempio inglese. Forse il nostro è un problema culturale, o semplicemente riguarda quella cattiva gestione d’idee e risorse che, nel caso del cammino di preparazione verso l’Expo 2015, fa temere per la buona riuscita di un progetto che tanto promette ai cittadini e all’ambiente. Di certo i buoni spunti non mancano, ciò che ci auguriamo è che il giardino planetario della Milano del prossimo futuro nasca realmente da un progetto partecipato per diventare effettivamente luogo di esperienza formativa per tutti.

 

Sara Bonanomi



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