14 settembre 2010

IN RICORDO DI RICCARDO SARFATTI*


 

Vorrei brevemente parlare di Riccardo Sarfatti e del suo rapporto con la politica. Parlare soprattutto di tre aspetti di questo rapporto che mi stanno molto a cuore e che oggi ci dicono quanto sia difficile per tutti noi fare a meno di lui. Il primo aspetto riguarda la relazione tra professione e impegno politico. Tra vita civile e politica. Riccardo Sarfatti ha fatto politica da studente, a partire da quando – all’inizio degli anni 60, ben prima dell’esplosione del movimento degli studenti – aveva lavorato per svecchiare la facoltà di architettura di Milano. Introducendo temi allora impensabili, come l’autogestione, la richiesta di valutazione sulla qualità dei corsi e arrivando fino a promuovere, nel 1963, una delle prime occupazioni di facoltà.

Ha fatto politica da docente, negli anni 70 e 80, sia a Milano che a Venezia, scegliendo di guardare in faccia, insieme ai suoi studenti la contemporaneità dei problemi sociali, anche se dalla prospettiva dell’insegnamento di materie storiche e storiografiche. Leggendo i suoi scritti di allora, il suo interesse per la questione urbana, la città, le politiche urbane, sembra nascere proprio dalla convinzione che l’attività di insegnare non potesse prescindere dal trasmettere ai suoi studenti gli strumenti per decifrare un mondo che stava rapidamente cambiando.

Ma Sarfatti ha fatto politica anche da imprenditore, interrogandosi sempre sul senso ultimo di un’impresa privata. Sul valore sociale di una piccola coraggiosa innovativa impresa, com’è stata ed è Luceplan, che si è costruita attorno ai valori dell’innovazione del prodotto e della diffusione più larga possibile, cioè più democratica possibile, della qualità della luce. Riccardo Sarfatti è stato un personaggio unico e particolare. Completamente avvolto e vibrante di politica, anche nei momenti in cui la politica attiva era sparita dalla sua vita quotidiana, pur essendo lui lontanissimo da un’idea di “politica come professione”. Riccardo Sarfatti era piuttosto un protagonista della “professione della politica” nel senso di un costante interrogarsi sul valore e l’utilità sociale di quello che facciamo nella nostra vita quotidiana, nelle nostre relazioni private e pubbliche, nelle nostre professioni e carriere. La professione della politica intesa come un costante sforzo per dare un senso alla nostra vita, senza che questo sforzo debba necessariamente sostituirsi, come professione tra le altre, al libero evolversi dei nostri interessi e talenti.

Il secondo aspetto del rapporto di Riccardo Sarfatti con la politica riguarda l’ossessione per il nuovo, la ricerca d’innovazione. Ricordo che negli anni 70 studiavamo il libro che Sarfatti aveva scritto con Magnaghi, Stevan e Perelli sulla “Città fabbrica”. L’intuizione alla base di quel testo, che abbiamo capito solo molti anni dopo, era che fosse necessario cambiare radicalmente prospettiva sui rapporti di produzione. Che il cuore dei rapporti sociali e dei conflitti di classe si stava spostando dal chiuso delle fabbriche allo spazio urbano. Che stava nascendo una società dove le rigide distinzioni di classe si stavano proiettando verso l’esterno delle fabbriche e si stavano fluidificando (liquificando si direbbe oggi) per permeare la complessa geografia degli spazi urbani, delle case, dei quartieri, dei luoghi pubblici. Al netto delle inevitabili ingenuità e degli ideologismi, la “città fabbrica” è stato il testo inaugurale di un’antropologia urbana che solo in quest’ultimo decennio ha trovato piena legittimità nel dibattito politico.

Ma ricordo soprattutto la costante ricerca d’innovazione che ha permeato tutta la vicenda di Luceplan, fondata negli anni 70 con Paolo Rizzatto e sviluppata insieme a Sandra Severi e Alberto Meda e affidata negli ultimi anni al figlio Alessandro. Come architetto e come direttore di riviste di design, Luceplan mi è sempre apparsa come una voce fuori dal coro. Priva di quel frastuono mediatico e di quelle accelerazioni di mercato che sembrano inevitabili e necessarie per sopravvivere nella giungla delle piccole imprese del design italiano. Luceplan non chiamava, non urlava, non premeva. Bisognava e bisogna ancora oggi andarla a cercare, informarsi su quello che succedeva nei suoi laboratori, cercare di scovare i suoi nuovi prodotti.

In modo sommesso, ostinato, Luceplan non ha infatti mai smesso di fare due principali cose: fare ricerca sui nuovi materiali e studiare le possibilità di realizzare prodotti (lampade e fonti luminose in genere) che potessero avere una diffusione a costi contenuti, pur senza perdere nulla della loro qualità estetica, della loro eleganza e bellezza. E questa timida ostinazione verso la ricerca e l’innovazione, col tempo, è diventata un segno distintivo, il tratto caratteristico di Luceplan e grazie all’esempio di Luceplan, di altre aziende italiane famose nel mondo come creatrici di luce e come costanti inventrici di nuove idee. Fare politica non vuol dire necessariamente innovare. Ma cercare l’innovazione, scoprire nuovi materiali, talenti, idee, come Riccardo Sarfatti ha fatto nella sua vita, è senz’altro il modo più fertile e bello di fare politica.

Il terzo aspetto, quello più particolare e difficile da raccontare, soprattutto questa sera, riguarda il modo di fare politica attiva di Riccardo Sarfatti. Perché sappiamo che c’è stato un momento, o meglio ci sono stati diversi momenti della sua vita, in cui Sarfatti ha deciso di non accontentarsi di cercare l’utilità sociale del suo lavoro, di non accontentarsi di cercare il nuovo nella sua professione. C’è stato un momento – ad esempio 5 anni fa, quando Sarfatti ha accettato di candidarsi per la carica di presidente della Regione Lombardia, cogliendo un risultato straordinario pur senza avere alle spalle una consolidata visibilità personale – in cui Riccardo Sarfatti ha capito che bisogna accettare la sfida di una politica attiva. Che non basta più produrre idee e innovazione dal vivo delle proprie professioni private. Che è necessario anche rischiare in prima persona e mettersi a disposizione della politica intesa come professione a tempo pieno. Grazie alla quale, e solo grazie alla quale, le idee e le innovazioni possono essere valorizzate, messe in rete, trasformate in pratiche e in coscienza diffusa.

Dio sa quanto abbiamo oggi bisogno di scelte come questa. Ma anche in questo passaggio, Riccardo Sarfatti è stato una figura distinta e riconoscibile. Non so bene come spiegarlo, ma il tratto specifico del “fare politica” di Sarfatti era a mio parere quello di una dolce ironia. Una dolcissima intelligente ironia che senza intaccare una sfrenata passione, gli permetteva di sopravvivere alle piccole ai tradimenti, alle frustrazioni di quella “politica come professione” che lui guardava con una scettica attenzione. Pensiamo spesso che i tratti necessari della buona politica debbano essere un’organizzazione razionale delle risorse, una lucida visione delle forze in gioco, il necessario cinismo per capire quando bisogna forzare sull’acceleratore della propria identità di partito o di schieramento e quando invece è opportuno cercare compromessi con alleati e nemici.

Non sono sicuro che sia davvero così. La dolce ironia di Riccardo era un modo per distanziarsi e guardare meglio le cose. Per sorridere sulle meschinità. Per non perdere mai di vista la dimensione emotiva, intima, individuale di una politica che in fin dei conti è fatta da uomini e donne che anche se ce la mettono tutta non possono nascondere questa dimensione privata; e anzi solo se la sanno valorizzare, trasformandola in valore pubblico da comunicare, riescono a trovare quella sintonia con la moltitudine dei cittadini che distingue un grande politico da un funzionario di partito.

Negli ultimi giorni, con Riccardo, parlando delle prossime elezioni a Milano, avevamo discusso e scherzato sulla situazione del Partito Democratico, sulle diverse anime e le contraddizioni di un partito che a volte oggi sembra aver perso un orientamento chiaro e univoco. Ma avevo anche chiaramente avvertito il suo amore profondo per il progetto di un Partito Democratico in Italia, per una grande società organizzata di donne e uomini che forse proprio in un momento di confusione, esprime al meglio la sua potenza di valori, di visioni del futuro, di idee. Una risorsa polifonica, straordinaria e preziosa. Così come avevamo sorriso, mettendole a confronto con i complessi equilibri che oggi forse rallentano un grande partito, avevamo sorriso sulle complicate, caricaturali, quasi militari regole che a volte noi, la società civile, cerchiamo di darci quando vogliamo sostituirci ai grandi partiti di massa.

La dolce ironia di Riccardo è stata in questi anni, anche in questi ultimi mesi, per tutti noi e se mi permettete anche per me, un potente antidoto per non perdere la bussola e per spingerci a fare scelte un po’ folli e appassionate. Quelle scelte intuitive e disorganizzate, un po’ confuse e coraggiose, magari tatticamente irragionevoli eppure visionarie, che costituiscono la linfa vitale della nostra idea di politica.

 

Stefano Boeri

 

(* Commemorazione tenuta alla Festa Democratica, Milano 11 settembre 2010)



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti