7 settembre 2010

GIAN VALERIO LOMBARDI: CHI ERA COSTUI?


 

“Carneade. Chi era costui?”. Così s’interrogava ansioso e perplesso qualche secolo fa il manzoniano Don Ferrante. Fra qualche decennio, qualcuno s’imbatterà in Lombardi Gian Valerio, magari spulciando il repertorio dei servitori dello Stato in Milano, e altrettanto inquietamente si chiederà per quale motivo questo nome non gli è nuovo, che gli ricorda vagamente qualcosa ma non si sa bene cosa.

“Lombardi, chi era costui?”, per quale motivo dovrebbe essere ricordato aldilà della sua carriera, una come tante, di servitore dello Stato, quell’etichetta che tanto superficialmente si appiccica a chi, più che servire la Cosa Pubblica, se ne è servito. Cosa ha fatto e come per distinguersi, ma ancora non sappiamo bene perché, dalla pletora dei prefetti e dei grand commis?

La veloce lettura della sua biografia ufficiale, rivenuta sul vecchio impolverato sito del Comune di Milano, non è d’aiuto: una dopo l’altra si succedono cariche, riconoscimenti, pubblicazioni, senza soluzione di continuità e senza vero onore, essendo questo racconto la retorica di mille altre simili vicende prefettizie: viene dal Sud, ha studiato legge, ha vinto concorsi, si è spostato su tutta la penisola, ha pubblicato qualcosa di cui si è persa notizia, infine è stato nominato nel 2005 Prefetto di Milano.

Di nuovo allora “Lombardi chi era costui?”. Il nostro eroe, il nostro investigatore puntiglioso, perchè solo un puntiglio personale può oramai spingere ad approfondire la vicenda storica di qualcuno così in fondo poco appariscente, non si dà per vinto e finalmente una luce, fioca ma incoraggiante, si fa strada. Non sarà mica quel Lombardi, quel Gian Valerio Lombardi, prefetto in Milano, che nel 2010 affermò perentoriamente che in Milano, il suo regno burocratico, “la Mafia non esiste”. Massì, è proprio lui, è quel valoroso burocrate di Stato che nel pieno della metastasi criminal finanziaria del periodo berlusconiano, negò l’esistenza della Piovra mafiosa nel circondario locale.

E’ proprio quel signore che, essendo Prefetto di Milano, e cioè capo delle funzioni dello Stato locali, non era a conoscenza di nulla e così ignorando e così tacendo, era tanto benvoluto da chi lo aveva messo lì proprio allo scopo: tacere, troncare, sopire. Il fatto è che, questo mestiere, questa funzione soporifera, richiede specificamente a sua volta, per essere credibile, un minimo di accortezza e di savoir faire, doti evidentemente sconosciute al Lombardi. Per essere davvero credibili, bisogna essere almeno non completamente smentibili, falsificabili, dai fatti. Un’affermazione come “La Mafia non esiste a Milano” contraddice nei fondamenti la sacra regola che regna nei felpati corridoi della cosa pubblica, e in particolar misura nei palazzi ministeriali, centrali e periferici dove, si sa, si procede più per quello che non si fa e non si dice, che per quello che si fa e si dice.

Eppure il Lombardi, che era pur sempre il Prefetto di Milano del tempo, accedeva in gran copia a tutte le informazioni, riservate, ufficiali e confidenziali, che sono strettamente connesse al ruolo e alla funzione.

Qui sta il gran Mistero: per quale motivo, il Lombardi, che non poteva non sapere, non si dice il dettaglio ma certamente l’essenziale, si è spinto così in là, e perentoriamente, nel negare qualcosa che perfino i bimbi sanno? Per quale motivo ha scansato sdegnosamente le informative che certamente lo ragguagliavano dei fatti, delle inchieste in corso e delle circostanze, i giornali che denunciavano, le confidenze che ammiccavano su questo e su quello? Come poteva ignorare, non come prefetto ma come cittadino che la mafia è da gran tempo trasformata da gestore di traffici legati al vizio a operatore su grande scala dei mercati finanziari e immobiliari e quindi necessariamente operativa nella principale piazza finanziaria italiana?

Eppure così è stato, non solo ha ignorato, ma ha chiesto a tutti i suoi concittadini di ignorare. Troncare, sopire, tacere. A noi, che siano contemporanei, e qui lasciamo una traccia al nostro futuro investigatore, sorge un sospetto, sorge cioè il dubbio che ci troviamo di fronte al classico caso del funzionario troppo zelante, a qualcuno che va oltre, per mancanza di stile, al mandato ricevuto: “Sourtut, trop pas de zèle”, l’avrebbe ricordato il Lombardi se avesse anche soltanto leggiucchiato qualcosa di storia. Un mandato non certamente rintracciabile nelle note caratteristiche del suo CV e semmai sussurrato in qualche salotto dorato, in quei luoghi insomma dove, fingendo di conversare di futilità, si governa.

Al nostro Lombardi, al nostro pover uomo del sud, qualcuno deve aver lasciato cadere qualcosa del tipo “Ma basta con questa mafia, se ne parla troppo e l’immagine all’estero ne risente” o qualcos’altro del tipo “Lei, che viene dal sud, dovrebbe aiutare la cittadinanza milanese a lavorare serena”.

Al nostro pover uomo del Sud, lusingato dalle attenzioni e dai sorrisi, confuso dai lussi e dagli ori, inorgoglito dalla fiducia e dalle aspettative in lui riposte dal milieu scintillante a cui era finalmente ammesso, non è sembrato vero di corrispondere alle attese, premio e incentivo alla definitiva consacrazione ai circoli più esclusivi del potere milanese.

Un potere dove regnano Dell’Utri e Ligresti, alla cui ombra peraltro ha trovato uno strapuntino perfino la bandiera del centrosinistra del 2006. Insomma detto e fatto, senza tante perifrasi, eccoti il “Gianvalerio”, che così, alla milanese, oramai viene appellato negli ambienti meneghini, uscirsene con la famosa frase incriminata. Una frase al tempo stesso così assertiva e così indifendibile che, teniamolo per certo, i suoi suggeritori avranno scosso sconsolati la testa, lamentandosi che proprio a loro doveva capitare l’unico napoletano tonto.

Fuor di scherzo, cosa deve avvenire perché un servitore dello Stato rassegni le dimissioni, cosa devono ancora scoprire Boccassini & Co. per certificare la sua assoluta inadeguatezza al ruolo, cosa devono inventarsi gli stessi criminali mafiosi per essere da lui finalmente riconosciuti e creduti come tali? Cosa deve accadere ancora, perché nella ottusa personalità di un simile Tartouf avvenga il miracolo di un soprassalto di coscienza e di dignità personale, professionale e civile?

Non sappiamo, ma speriamo tanto negli sguardi silenziosi ed eloquenti di quanti, tutti i giorni, contribuendo dai suoi uffici alla lotta contro la mafia e il malaffare finanziario criminale, gli rivolgono negli incontri, sorseggiando un caffè, o nei corridoi: “Eccellenza, per favore, si tolga di mezzo. Ci lasci lavorare”. Per parte nostra, dimentichiamocelo in fretta, questo Prefetto e lasciamo al futuro investigatore il compito di faticare per ricordarselo assieme a Carneade.

 

Giuseppe Ucciero

 


 



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