31 agosto 2010

ETICHE DI MARE 1


 

Credo che se si dovesse cercare con uno di quei softwares di data-mining capaci di estrarre l’essenza da una mole sterminata di dati, l’Agosto italiano del 2010 risulterebbe dominato dall'”etica” (e dintorni, con: coscienza, anima, responsabilità, eccetera). “Si parla molto di una cosa – diceva mio nonno durante la guerra, riferendosi però soprattutto al denaro – quando ce n’è poca”. Mi sembra che questo si applichi perfettamente all’etica nel parlamento mediatico in cui ci troviamo immersi (per castigo divino, penso). Lo ha detto anche la Signora Santanché che se ne intende, basta tette, basta mondanità, “oggi la mondanità consiste nel non essere mondani”: vecchia storia, rivoluzionari a vent’anni, forcaioli un po’ di tempo dopo.

Gli unici che non se ne sono accorti sono alcuni personaggi di seconda linea come la Brambilla, che non ha ancora capito che il capezzolo è demodé e Rotondi, segretario di un partito di massa che si chiama “Democrazia Cristiana per l’Autonomia”, che ha organizzato una festa orrendamente cafona ostentando tartufi grandi come meloni, con buona pace cristiana (anzi democristiana) delle famiglie che non possono permettersi neppure un gelato. Molte spese con poco costrutto, perché alla fine, pur essendo Ministro dell’attuazione del programma (sic!), non è neppure stato invitato alla riunione a palazzo Grazioli in cui si discuteva del futuro programma del governo (una volta, quando c’era il teatrino della politica e non era ancora arrivato il Madison Square Garden berlusconiano, si chiamavano “verifiche”). Il che la dice lunga sul peso del ministro Rotondi, noto come Kiwi Man, e sul significato vero di quella riunione.

In realtà la stagione è stata aperta dai cosiddetti “finiani” che hanno introdotto nel dibattito, se non l’etica (ma forse sì) la legalità, subito scomparsa in un diluvio di squadrismo mediatico starnazzante al cui confronto un pollaio apparirebbe come un collegio svizzero. Si sono presentati poi sulla scena a parlare di etica oltre ai soliti prezzolati che dicono tutti la stessa cosa del Patron, anche due costituzionalisti liberali doc del calibro di Piero Ostellino e di Adornato che hanno proposto una nuova versione del dilemma mannheimiano e kekseniano (evidentemente riletti sotto l’ombrellone) tra democrazia formale e democrazia sostanziale. La soluzione proposta dal due (che coincide stranamente con le teorie di scuola arcoriana) è originale e sostanzialmente dice questo, c’è una costituzione scritta, roba frusta da legulei e poi c’è una costituzione materiale (quella vera) elaborata dal Capo con il popolo tramite il famoso dialogo con le masse. La Costituzione valida è quella del noto giurisperito confuciano Ghepensimi Sun_ki_mi, ” se mi piace la prendo altrimenti no e chi non è con me tradisce la volontà del Poppolo” (due “p”, please, e gota a cornamusa). Grandi costituzionalisti davvero! Ma soprattutto sempre dalla parte dei meno forti, ma questo è il liberalismo a l’italienne, specialista della famosa cafeteria legal theory, cioè “di una legge prendo solo qual che mi serve”.

Entra poi in campo a gamba alta sulle elezioni milanesi Roberto Caputo, no, pardon, Savino Pezzotta che, a proposito della possibile candidatura di Giuliano Pisapia, afferma di volere (come molti di noi) una Milano “aperta, vivibile, meno inquinata e incasinata. Capace di cogliere i grandi mutamenti[…]che tornasse capitale morale … ” (La Repubblica, 8 Agosto 2010, Milano, pag.V).  Non ci sarebbe stato nulla di male sentire dire da un esponente, che si dichiara cattolico, anche qualche parola sui grandi temi etici di cui più di una volta ha trattato, con toni fermissimi e inequivocabili il Cardinale Tettamanzi: l’eguaglianza, la solidarietà, la lungimiranza per l’inclusione e l’amore per il prossimo. Ma, comprensibilmente, ci sono cattolici con diversi orientamenti e sensibilità. Preoccupa però che la prima affermazione di politica concreta che fa Pezzotta è che, se Giuliano Pisapia fosse candidato, visto che si è pronunciato in favore di un riconoscimento alle coppie di fatto, “sarebbe impossibile un’interlocuzione serena”. Nessuno chiede a Pezzotta di sostenere posizioni che non condivide, ma che cosa impedisce una “interlocuzione serena”, su un tema così delicato e controverso, con qualcuno che non necessariamente la pensa come te? Da che posizione morale viene un’affermazione così integralista? Non certo da quella dell’umanesimo cristiano ed evangelico che è  alla base della tradizione culturale italiana e lombarda e i cui principi base sono condivisi da credenti e non credenti cresciuti in questa tradizione.

Ci sono nel nostro paese milioni di persone che, per le ragioni più diverse, hanno scelto o dovuto scegliere una famiglia intima, basata solo sull’affetto, invece di una famiglia convenzionale basata sulla forma (che non esclude, ma neppure garantisce, l’affetto). Queste persone sono cattoliche o atee, di destra o di sinistra o di centro, di ogni età regione o stazione sociale: hanno il diritto, in base a quell’umanesimo cristiano ed evangelico, di chiedere che i loro problemi umani, sentimentali e sopratutto concreti ed economici, vengano discussi senza editti talebani, da una parte e dall’altra, e che si arrivi a una soluzione buona per tutti, che rispetti certamente le sensibilità di tutti, ma che rifiuti le imposizioni moralistiche ideologiche e, soprattutto, che sia consona con quell’umanesimo cristiano ed evangelico che è patrimonio comune e di cui nessuno si può appropriare aprioristicamente.  A Pezzotta e a chi la pensa come lui, proporrei di cominciare a ragionare in modo inclusivo, senza partire con l’usuale gambitto della politica tradizionale, di porre veti “a prescindere”, e senza cadere nella pratica trita e ritrita della sinistra (o del centrosinistra o del centro, non mi importa) di spararsi nei garretti prima ancora di cominciare la corsa.  

A proposito di etica sarebbe utile chiarire, una volta per tutte, un punto che, con non poca falsa coscienza, i sedicenti “religiosi” fobolaici, tendono a confondere. Nel nostro paese siamo tutti o quasi “cristiani”; lo sono anche io che da adulto mi ritengo solidamente non-credente (o ateo) e sinceramente anticlericale, non antireligioso. Infatti, salvo la minoranza ebraica e altre piccole minoranze, tutti gli italiani della mia età e anche di vari decenni più giovani, hanno ricevuto un’educazione cristiana ed è assolutamente vero che la nostra storia ha radici cristiane – anche se ho ritenuto e continuo a ritenere inopportuno che questa affermazione di fatto venga tradotta in fondamento normativo.

Ma le radici grondano anche sangue e dolore e se vogliamo riscattarci da questo sangue e da queste sofferenze dovremmo tutti (credenti e non) rafforzare gli elementi umanitari e di comprensione umana che fanno parte di queste radici, non impugnare la spada vendicatrice di principi che sono altamente controversi anche all’interno della complessa dottrina cristiana. Nessuno ha il monopolio dell’umanesimo cristiano, ma chi vuole riconoscersi in questo umanesimo deve dare prova volta per volta di praticarlo veramente, hic Rhodus hic salta. Dobbiamo distinguere i principi dalle convenzioni; l’On. Giovanardi, che io seguo sempre con attenzione perché ha lampi di vera genialità buonsensaia, così spiega la sua visione del pubblico religioso: “guardate la chiesa, dice, nelle domeniche ordinarie sono pieni solo i primi banchi, ma nei giorni di grande festa si riempie tutta la chiesa. Ecco a noi (noi cattolici del PDL, ndr) quelli dei primi banchi non interessano, noi ci rivolgiamo a tutti gli altri”. Appunto, i risultati morali si vedono.

Uno degli ultimi arrivati nelle ferie agostane dell’etica è Vito Mancuso che con un’articolessa su Repubblica solleva un grave problema di coscienza: è eticamente accettabile continuare a lavorare per la Mondadori dopo che La Repubblica aveva denunciato una legge che garantiva enormi sgravi fiscali a una serie di aziende, tra cui preminentemente l’editrice di proprietà del premier grazie a una sentenza comperata dall’Avv. Previti per questo condannato anche in terzo grado? Se lo scopo era quello di risolvere il problema e sanare il tormento di un autore della Mondadori, la strada scelta è stata del tutto inadatta: infatti il problema di coscienza è un fatto privato e per chi ha una coscienza veramente sensibile si risolve privatamente e in silenzio, perché appunto è “un fatto di coscienza”, cioè di se con sé (o il dio che c’è in te). Al più si può dare testimonianza pubblica (martir in greco) dell’atto compiuto. Se invece è un atto di narcisismo pubblico un cattolico dovrebbe ricordarsi che questo comportamento viene condannato piuttosto duramente in Luca 18,10-14, ” Io vi dico: questi (il pubblicano, ndr) tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro (il fariseo, ndr), perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”). Se poi com’è parso, gli scopi erano invece quello di fare un po’ d’ammuina e prevenire una critica che sarebbe sicuramente arrivata – probabilmente da sinistra, dove i fessi non mancano – dopo il dossier di Repubblica o altro, Mancuso ha sicuramente sollevato un grande polverone, pagando però, io credo, conti piuttosto salati. Il primo è che ha fatto contemporaneamente la figura dell'”ingenuo” (che nella cultura italiana vuol dire fesso) e del furbastro (che se si fa beccare rientra parimenti nell’odiata categoria) e il secondo che non è stato convincente neppure con i suoi ammiratori, tra cui mi annovero, che anzi sono rimasti piuttosto male.

Ora un singolo lettore conta pochino, ma poiché sospetto che siano in tanti nella mia posizione, il risultato è stato parecchio negativo. Ma non tuttavia è il risultato più negativo: in primo luogo spostando il fuoco sul rapporto “etico”, autore-editore, si è creata una cortina fumogena sul vero problema “politico” editore-Premier; in secondo luogo si è data l’offa alla destra di prendersi (giustamente) gioco di un’intellettualità che per una ragione o l’altra (con rarissime eccezioni tra cui Don Gallo, l’unico che ha rotto il contratto) non ci ha fatto una bella figura, vedi il commento irridente su il Domenicale del 29 Agosto; terzo permette a Berlusconi di uscirne a testa alta dicendo, “vedete, tutti lavorano per me e mangiano nel mio piatto”. Insomma un esempio triste del “vai avanti tu che a me mi vien da ridere” e una conferma della implacabile propensione della comunità degli intellettuali letterari italiani di porre questioni che non possono essere risolte, ma solo rimestate nel mortaio della retorica. “If you pose silly questions yo get silly answers”. (segue)

 

Guido Martinotti

 


 



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