2 agosto 2010

UNA TESTIMONIANZA*


Il dibattito assume perciò importanza perché rappresenta l’occasione di un chiaro confronto, utile anche all’esigenza di contribuire a rilanciare nella città una politica riformistica, di cui da tempo si è persa ogni traccia.

Non dico cosa nuova affermando che nel secolo passato Milano più volte ha compiuto scelte politiche che hanno influito sugli avvenimenti nazionali coevi e successivi […] la vicenda milanese ha avuto un carattere squisitamente politico e ha provocato conseguenze non solo locali, ma ha aperto la fase delle Giunte di sinistra Comunali e Provinciali, rompendo lo schema della “delimitazione della maggioranza”. Ha segnato l’inizio del tentativo dei socialisti di contrastare l’egemonia democristiana e, nel contempo, il rifiuto di assecondare il disegno del “compromesso storico” teorizzato dal PCI. Un progetto sostenuto anche da settori importanti della DC, che proprio in quel periodo si stavano consolidando con la segreteria di Benigno Zaccagnini […].

Con la scelta dell’alleanza con il PCI milanese si confermava, inoltre, il rifiuto da parte nostra di accettare la ripetizione meccanica di formule politiche dal centro alla periferia e di avallare supinamente le imposizioni della dirigenza nazionale dei singoli partiti […].

La scelta milanese evidenzia che la politica del centro-sinistra aveva esaurito da tempo la carica riformatrice che aveva caratterizzato il suo esordio e stancamente viveva un passaggio verso opzioni moderate e conservatici […].

L’aggressività della destra neofascista e reazionaria, le marce silenziose e le stragi (Piazza Fontana e quella davanti alla Questura, la contestazione studentesca, gli assassini di giovani di sinistra) avevano creato un quadro politico complesso nel quale i comunisti, con intelligente intuito e realismo, svolsero un ruolo importante a difesa della democrazia. Essi sostennero infatti la politica della Giunta Comunale, astenendosi sul Bilancio, appoggiando le scelte più lungimiranti e popolari con risultati positivi, che furono raggiunti nonostante l’opposizione di Assessori democristiani, che ostentatamente assunsero comportamenti reazionari sul piano politico e conservatori a livello amministrativo […].

Alla fine del 1975 i socialisti uscirono dal governo Moro e De Martino fece un’affermazione traumatica: “Non più un governo senza i comunisti”. Fu quella, a mio avviso, una sortita inopportuna e sbagliata, che diede tuttavia il senso del logoramento del centro-sinistra e che determinò la sconfitta del nostro partito nella successiva tornata elettorale del 1976. Quindi il clima politico di quel luglio del ’75 era caratterizzato da forti tensioni nella maggioranza di governo anche a causa degli esiti delle amministrative del 15-16 giugno, sia per i successi del PCI, sia per gli scarsi risultati dei socialisti, i quali, appunto, si resero conto di correre il rischio di finire in una tenaglia pronta a stritolarli.

Queste furono le ragioni che guidarono i socialisti milanesi, non senza difficoltà, a proporre e realizzare la Giunta con i comunisti, costringendo i democristiani all’opposizione […]. Tutti ricorderanno che fummo avversati da gran parte della stampa quotidiana e periodica. Si scrisse che la “Giunta rossa” aveva piantato la “bandiera rossa” su Palazzo Marino. Certo fu un avvenimento traumatico. Era la prima volta che i comunisti entravano al governo dalla porta principale e con pieno riconoscimento. Ci tacciarono di spregiudicatezza: i due consiglieri DC e i tre socialdemocratici che entrarono in Giunta furono accusati di essere dei voltagabbana. Furono polemiche strumentali, lamentele di coloro che consideravano la politica come un gioco di vecchi gentiluomini, invece la nostra scelta fu una risposta politica all’arroganza della DC che voleva continuare a dominare il campo a tutti i costi.

Ricordate come nella pochade “Tecoppa” si lamentava di non poter infilzare l’avversario perché non stava fermo? Protestava perché questo si difendeva e contrattaccava. Per la verità pochi consideravano che il PSI non aveva mai cessato la collaborazione con il PCI negli organismi di massa, nelle cooperative, nei sindacati ed in numerose Amministrazioni nelle quali la DC era fuori gioco.

Ripeto: per storicizzare la nascita della Giunta di sinistra del ’75, si deve prescindere dalle questioni di dettaglio, da sentimenti e/o risentimenti personali e da ogni altra questione marginale. Un fatto politico di tale rilevanza non può essere giudicato né per l’eleganza dei comportamenti, né sul piano meramente estetico. E’assurdo valutare una vicenda politica di quella portata, giudicando le coerenze e/o incoerenze dei singoli attori o sostenendo che fosse preferibile rifiutare i voti aggiuntivi dei due consiglieri DC (Sirtori e Ogliari).

Tutte considerazioni che non tolgono e non aggiungono nulla ad un’operazione che sinteticamente si può così riassumere:

1) l’indebolimento dello PSDI, costretto a fare i conti con una scissione consistente (la costituzione del MUIS di Paolo Pillitteri);

2) l’aver costretto la DC, dopo trent’anni, all’opposizione;

3) l’aver ottenuto l’appoggio non condizionante e non contrattato dei consiglieri di Democrazia Proletaria (i suoi tre eletti, come si ricorderà, votarono a favore della Giunta).

Un ultimo e non trascurabile risultato fu il riconoscimento del PCI, che accettò di partecipare ad una Giunta a guida socialista e in condizioni di minoranza numerica. A guidare il gioco fu in quel momento il PSI e così fu per i due decenni successivi. Non può essere ignorato l’esempio che Milano provocò, non solo per il clamore sollevato, ma perché fu seguito da analoghe scelte in numerose grandi città nelle quali si costituirono Amministrazioni di sinistra. Due anni dopo, persino Roma, città che ospita la Santa Sede, non fu più guidata da un democristiano ma elesse un Sindaco comunista.

Concludendo, voglio ricordare quanto detto all’inizio: questo dibattito non ha solo un valore retrospettivo, ma costituisce una riflessione utile per trarre indicazioni per il futuro. I comunisti milanesi avevano compiuto scelte realistiche e sagaci tanto da favorire un nuovo corso della politica cittadina, influenzando la politica di Comuni e Province in gran parte del territorio nazionale e partecipando per due decenni al governo delle grandi città. Negli anni Novanta hanno iniziato a rinnegare un passato di cui erano stati positivamente partecipi nelle Giunte di Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri.

Quali ragioni li indussero a negare, nei fatti, validità a quella stagione? Anziché sottolineare il valore di quelle esperienze riformiste ed evidenziarne i positivi risultati ottenuti in quegli anni, costoro hanno operato per far dimenticare le attività nelle quali si erano impegnati con successo Elio Quercioli e Roberto Camagni, in Comune, Roberto Vitali e Goffredo Andreini in Provincia ed hanno esplicitamente ed implicitamente lavorato per far cadere l’oblio su quella temperie ricca di risultati che tuttora vengono dalla maggioranza dei cittadini giudicati positivamente.

Se si vuole riacquistare la fiducia popolare, se si vuole tornare a governare Milano, occorre rifarsi a quei modelli, a quelle esperienze.

[…]

Nel porre la candidatura a governare Milano non conta tanto la ricerca di personaggi più o meno noti, ma occorre presentarsi con proposte programmatiche innovatrici, moderne e popolari, frutto di politiche riformiste che si richiamano ad un passato che merita di essere ricordato.

Sono stato testimone delle amarezze di Elio Quercioli, intelligente e onesto dirigente politico, che subì, per amore dell’unità del partito quei giudizi negativi, nonostante fosse certo di aver lavorato bene e nell’esclusivo interesse della città e dei milanesi. Oggi, un modo di onorare la sua memoria è quello di rivalutare quelle esperienze, che sono la testimonianza più corretta e tangibile delle capacità della sinistra di governare nell’interesse della città e del suo sviluppo democratico e civile.

Aldo Aniasi

*(estratti dell’intervento scritto di Aldo Aniasi a un dibattito sulla formazione della giunta di sinistra a Milano svoltosi nel 2000)




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