26 luglio 2010

AI PRIMORDI DEL CENTROSINSTRA: IL 1900


 

La prima giunta di “centro sinistra” a Milano si insedia nel gennaio del 1900 e si dimette nel 1904. La vicenda, che evidenzia il ruolo nazionale di apripista politico della città, si dipana tra scissioni socialiste, rotture tra estremisti e riformisti, laici e cattolici, preparazione dell’expo, influenze massoniche, conflitti d’interessi, contrasti sul ruolo del pubblico nell’erogazione dell’energia e dell’acqua, scontri con i proprietari di terreni e i costruttori, proteste operaie e rigurgiti polizieschi, etc. Con l’eccezione del ruolo del re, quasi nulla che non ci tocchi ancor’oggi. Le elezioni amministrative erano convocate per il dicembre 1899.

Dopo lo stato d’assedio invocato dalle autorità cittadine e messo in atto dal commissario regio generale Bava Beccaris, dopo gli arresti e le condanne dei socialisti e dei repubblicani (a Turati e Chiesa furono comminati 12 anni), dopo che Pelloux aveva presentato in Parlamento una serie di progetti gravemente lesivi delle principali libertà previste dallo Statuto, i conservatori milanesi pensavano di vincere senza problemi. Invece il 1898 era stato vissuto dalla città come una rottura dello spirito risorgimentale. Non si era trattato soltanto della morte di cittadini innocenti, né solo della chiusura di alcuni circoli e dell’arresto di alcuni dirigenti (in fondo Crispi l’aveva già fatto nel 1894). Per la prima volta venivano in nome di un’emergenza del tutto fittizia travolte le regole “costituzionali”. Lo stato d’assedio diede l’impressione che la monarchia e il governo stavano prendendo una strada reazionaria, un ritorno a un clima “austriacante”.

Al contrario di quanto previsto dai conservatori la repressione aveva quindi generato uno spirito di rassemblement tra partiti popolari, in particolare i socialisti avevano abbandonato la loro tradizionale ostilità e intransigenza nei confronti dei repubblicani e dei democratici, auspicando anzi alleanze le più larghe possibili per il ripristino delle libertà. Le elezioni amministrative, si votava con un sistema di liste maggioritario, furono così vinte dalla coalizione popolare (diciamo il centrosinistra): quarantuno gli eletti i radicali (tra cui Mussi, De Cristoforis, Marcora, Missori, Salmoiraghi), dodici i socialisti (Luigi Majno, Gnocchi Viani, Emilio Caldara, Angelo Filippetti, Filippo Turati), dieci i repubblicani.

La vittoria social-radicale a Palazzo Marino fu così commentata dal quotidiano conservatore La Perseveranza: “con le leggi elettorali come la nostra, quando in una città eminentemente industriale e dove l’immigrazione è imponente e continua, anche quelli che si possono dire gli ultimissimi venuti hanno diritto al voto, o le prove d’intelligenza e le ragioni di censo per il corpo elettorale sono mantenute nei limiti irrisori, quando qualche ragione d’economico malessere, affatto indipendente dalle amministrazioni civiche, grava su di un paese, ben si comprende come le masse sobillate da pochi o col verbo socialista o col verbo repubblicano, si buttino nel fallace sogno di un migliore avvenire […] inoltre vi è un generale abbassamento del livello d’istruzione invano coperto dall’orpello di un’istruzione impartita al proletariato in modo tanto deficiente da renderla assai più pericolosa che utile”. Insomma era colpa degli immigrati, dell’ignoranza e del governo nazionale che non sapeva gestire bene la crisi economica. Bossiani ante litteram?)

Sindaco viene eletto Giuseppe Mussi, il più vecchio e autorevole leader del radicalismo milanese. I socialisti i repubblicani non entrarono In giunta, ma danno l’appoggio esterno: l’accordo con i democratici era infatti tutt’altro che organico. Gli esordi non furono entusiasmanti: nata più che altro come un blocco antireazione, la nuova maggioranza non aveva preparato un programma di governo cittadino e aveva eletti privi di esperienza amministrativa. Solo dopo qualche mese si trovarono gli accordi su alcuni punti qualificanti: la questione della costruzione di alloggi popolari, la refezione scolastica

Ma persisteva il dissenso sul ruolo economico gestionale del municipio. Repubblicani e socialisti erano infatti favorevoli a una campagna di intensa ed estesa municipalizzazione. Eugenio Chiesa chiese alla giunta di sciogliere il contratto con l’Union des gaz, un’impresa a prevalenza di capitale francese, che forniva l’illuminazione pubblica al Comune e successivamente propose la municipalizzazione dell’energia idrica gestita dalla Edison. La parte moderata della Giunta Mussi era però contraria alla municipalizzazione, e il sindaco minacciò le dimissioni se la municipalizzazione fosse passata in consiglio. Tanto più che secondo il sindaco la municipalizzazione sarebbe costata troppo per il Comune già in disavanzo; la questione della contrapposizione tra favorevoli e contrari al deficit spendig fa la sua prima vittima nelle sinistre. Infatti L’ “Avanti” criticò la giunta provocando la crisi: “L’amministrazione democraticissima di Milano ha messo il codino e la parrucca; con tutte le diavolerie della modernità. La municipalizzazione è diventata per essa un atto di sovversione; e dire che in Inghilterra la municipalizzazione l’hanno fatta i liberali! Nella colta Milano, invece, la democrazia preferisce il contratto privato. Ora la nostra attenzione è richiamata dal fatto che qualcuno che dirige la manovra di opposizione alla proposta di municipalizzazione è grande azionista della società cui vantaggio si vuole rinnovare il contratto. Le grandi idealità della democrazia borghese si eclissano davanti al “Dio affari”. Questa sopraffazione degli interessi privati sul pubblico è un vero atto di camorra amministrativa che vale a provare che mentre tutte le accuse di camorrismo si scagliano contro il Mezzogiorno, se Messena piange, Sparta non ride”.

Le polemiche sul conflitto di interesse di diversi consiglieri, con accuse che si scambiavano maggioranza e opposizione, nonché all’interno della maggioranza e dell’opposizione, rendevano il clima incandescente. Mussi stanco e malato si dimette a succedergli viene eletto Giovan Battista Barinetti una figura minore del radicalismo milanese. Nella nuova giunta, fatto di fondamentale importanza nella storia cittadina, entrano i socialisti: Majno assessore anziano, Filippetti allo Stato civile e Arienti ai lavori pubblici.

Per la prima volta rappresentanti di un partito non risorgimentale e da molti ritenuto eversivo amministravano la città. Si trattava di un successo di tutti i socialisti ma in particolare della corrente riformista, impegnata in quegli anni anche nel sostegno al governo Zanardelli Giolitti, forse il più importante tentativo riformatore del ‘900. Per la nuova giunta le municipalizzazioni diventano parte del programma. L’ingresso dei socialisti in giunta coincise però anche con la sconfitta dei riformisti nel partito tant’è che in città esistevano in pratica due PSI: la federazione che era controllata dai sindacalisti rivoluzionari mentre i riformisti si erano organizzati nei Gruppi socialisti: i due gruppi spesso presentavano candidati contrapposti nelle elezioni politiche che si svolgevano sulla base di un sistema maggioritario a collegio. La spaccatura tra i socialisti (come curiosamente avverrà anche nel secondo dopoguerra) confermata al congresso nazionale di Bologna, accelerò la fine dell’esperimento di amministrazione democratico della città riconsegnando la città alle destre. Nel settembre 1904 dopo un eccidio di minatori avvenuto a Buggerru in Sardegna proprio l’ala più radicale del Psi, proclama il primo sciopero generale nazionale, che tra blocchi stradali, blocco della luce e del gas si protrae per circa una settimana.

Milano è l’epicentro di uno scontro che si conclude con una secca sconfitta dei rivoluzionari. I conservatori della che avevano pensato di sfruttare la paura della piazza dopo il 1898, pensano di ripetere lo schema; ma mentre allora la città aveva reagito agli eccessi dei militari questa volta reagisce agli eccessi degli scioperanti. Alle elezioni amministrative (parziali) la destra capeggiata dal senatore Ettore Ponti si presenta con la neonata Federazione elettorale milanese, che raccoglieva diverse associazioni: l’Associazione fra commercianti ed esercenti; il Circolo industriale; l’Associazione proprietari di case e di terreni; il Collegio capimastri e imprenditori; la Società proprietari salumieri; l’Unione industriali arti grafiche; la Società fra albergatori; il Consorzio proprietari macellai; i Comitati elettorali monarchici; il Consiglio federale delle associazioni cattoliche; la giunta è sostenuta da una lista comune tra I radicali e i riformisti (che schierano anche Filippo Turati e il banchiere Luigi Della Torre) mentre una terza lista raccoglie i socialisti rivoluzionari.

La sconfitta per i riformisti è pesante: il 28 novembre Giovanni Battista Barinetti e la sua Giunta si dimettono. Le divisioni in quello che possiamo chiamare il primo centro sinistra erano ormai profonde e nonostante vi fosse ancora, grazie ai voti di 4 anni prima una maggioranza in consiglio, si va allo scioglimento del consiglio. Il 7 febbraio 1905 venne eletto il nuovo sindaco espressione della nuova maggioranza moderata. Il Corriere della sera a proposito della sconfitta della coalizione riformatrice scrive: “E’ a Milano che la prima unione dei partiti popolari si è formata, e da Milano è partito il contagio dell’esempio per altre coalizioni consimili. La condanna che Milano ieri ha inflitto alla rinnovata unione dei partiti popolari imposto dai radicali de “il secolo” e dai turatiani de il “Tempo”avrà la sua eco anche altrove”.

L’estremismo conservatore aveva fatto vincere i riformisti, l’estremismo rivoluzionario aveva fatto vincere i conservatori.

 

Walter Marossi



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