26 luglio 2010

L’AFFAIRE POMIGLIANO… O DELL’ARTE DI FARSI DIRE DI NO.


 

Man mano che la questione Pomigliano si snoda lungo il suo complesso percorso, il profilo di Marchionne come spregiudicato giocatore di poker diviene sempre più netto. Apparentemente, la questione appariva molto chiara: cedere qualcosa (molto ?) sui diritti per avere maggiore certezza sull’occupazione e il futuro. In realtà, la partita celava una doppia chiave di lettura che il suo per ora parziale e controverso esito contribuisce a rendere più visibile, s’intende a chi vuol effettivamente vedere. Per una Fiat ormai decisamente globalizzata, anzi per essere più precisi sempre più “americanizzata”, gli insediamenti industriali italiani, e in particolare quelli di Termini Imerese e di Pomigliano appaiono poco o nulla redditizi. Marchionne ha ricordato che i livelli di profitto raggiunti con altri stabilimenti (Tichy) sono pressoché irraggiungibili per quelli italiani.

La prima conseguenza operativa è quindi stata lasciare al suo destino Termini Imerese, colpo riuscito senza suscitare troppe resistenze: troppo lontana la Sicilia, troppo deboli gli economics dello stabilimento, relativamente pochi gli operai colpiti. Altra cosa, Mirafiori, Cassino, Melfi e infine Pomigliano, subito individuato però come il secondo obiettivo della strategia Fiat. Qui si palesa il genio pokeristico del Marchionne. Pomigliano vuol dire Napoli, vuol dire 15.000 lavoratori tra fabbrica e indotto: non si può tentare il colpo della chiusura dei cancelli come a Termini Imerese. Ci vuole, come si dice di questi tempi, un “colpo d’ala”. E colpo d’ala fu: il Marchionne capisce che, se vuole andarsene, non lo deve dire lui, ma deve farselo dire da altri.

Eccolo allora mettere sul piatto un vago piano da 700 milioni di euro (non se ne conoscono le linee guida essenziali), come piatto di una partita il cui corrispettivo dovrebbe essere, nientemeno, che la rivoluzione immediata delle relazioni industriali in Italia. Sa benissimo, ché non è uno sprovveduto, che la FIOM dirà di no, e sa benissimo che una percentuale non esigua di lavoratori la seguirà, così come sa benissimo che, sic stantibus rebus, stando così le cose nel nostro ordinamento giuridico, questa situazione non garantirà l’innovazione delle relazioni industriali (regolazione diritto di sciopero, ecc).

Lo sa, ma va avanti lo stesso, da bravo giocatore di poker. Infatti, se il colpo riuscisse (e son ben poche possibilità) resterebbe a Pomigliano ma in condizioni assai più favorevoli di quelle attuali, se invece il colpo fallisce sarà facile dare la colpa a chi gli ha impedito di fare i grandi investimenti, a chi ha negato all’Italia l’innovazione del lavoro e a Napoli migliaia di posti di lavoro. Corollario della vicenda è il coinvolgimento a fianco di Fiat, non solo della Confindustria, non solo del centrodestra compatto, ma anche di larga parte del centrosinistra, tra cui non mancano i supporter della nuova stagione delle relazioni industriali. Ecco allora lucidamente disegnato, e poi sapientemente attuato, nei contenuti e nelle forme, il Piano Marchionne, un Piano di cui si deve dire fin d’ora che è il modello d’azione di chi deve farsi dire di no, fingendo di volere il contrario. Dei contenuti si è già sinteticamente detto in tante occasioni, delle forme merita di essere sottolineata qui la coerenza tra l’ipotetico fine occulto delle mosse marchionniane, e le modalità con cui la proposta è stata gettata sul tavolo nell’espace d’un matin.

Un Prendere o Lasciare senza alcuno spazio di trattativa, né nei tempi né sui contenuti, accompagnato da una grevità di toni che pure appare nuova in un manager di cui si era colta qualche tempo fa una pur generica vicinanza al centrosinistra. Nelle trattative, che sono fatte di persone e di prestigio, le forme sono essenziali: se uno degli attori usa parole pesanti, il meno che si può pensare è che sarà pure seduto fisicamente al tavolo, ma in realtà se n’è già andato da un pezzo, o forse non s’è mai neppure seduto.

L’evoluzione controversa dell’affaire Pomigliano sembra premiare l’ipotesi B, di gran lunga preferita da Marchionne: troppo forte la resistenza degli operai, troppo “ottusa” la FIOM, troppo grandi i rischi di una guerriglia sostenuta dai diritti costituzionali (finché ci sono). Certo chi si è esposto a sostegno del grande investimento di Pomigliano, chi ha siglato patti con FIAT, ora chiede a gran voce lo sviluppo dello stabilimento: ma è come un bambino che parla forte nel buio per farsi coraggio, ben sapendo che FIAT si è astutamente preparata tutte le ragioni per fare il contrario di quanto promesso. Così si suona la grancassa al grido di “la Panda a Pomigliano”, ma i dubbi sulla concreta realizzazione della parola d’ordine restano sul tappeto. Cosa ci attende allora in futuro, nei mesi prossimi, e negli anni più vicini?

Lo scenario più probabile ci parla di una FIAT che agisce su scala mondiale, alla ricerca da brava multinazionale delle condizioni più efficaci per fare profitto, cosa che faceva anche finora, ma che farà con ben altra determinazione e spregiudicatezza. L’Italia, e gli stabilimenti FIAT, vedranno una riduzione di investimenti, giustificata dalla presenza di fattori produttivi migliori in altri Paesi: manodopera meno costosa e più debole, tutele ambientali meno rigide, tassazione più favorevole, insomma paradisi capitalistici. A chi chiederà conto, FIAT indicherà pronta con il dito il Capro Espiatorio.

Nel mezzo, un gran dibattito, una gran polemica, se si vuole una contrapposizione feroce tra chi pensa che si deve cedere una parte dei diritti (leggi ridisegno delle relazioni industriali) e chi intende difenderli, ma alla fine non sa bene come. Entrambi con qualche parte di ragione, entrambi effettivamente indifesi davanti alle mosse di un capitalista che intende cogliere, senza porre tempo in mezzo, le grandi opportunità di profitto della deregulation su scala mondiale: del doman non v’è certezza. Nel frattempo, giganteggia con il suo maglione blu il grande manager, quello che diceva di sì, facendo di tutto per farsi dire di no.

 

Giuseppe Ucciero



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