19 luglio 2010

RIFLESSIONI DI UNA STUDENTESSA “MATURATA”


 

Il giorno dopo il mio esame di maturità, sole, cloro, e qualche parola di una mia “ormai ex” compagna di classe mi hanno fatto realizzare una cosa fondamentale: della mia vita, quello era il periodo in cui sapevo, o avrei dovuto sapere, più cose, il programma di un anno di una decina di materie. Quasi un intendere extensive, per dirla con Galileo. La sfida di mettere insieme i pensieri e richiamare alla memoria i concetti richiesti, saperlo fare sottoposti a una certa pressione, credo sia stato dimostrare la nostra “maturità”. In modo particolare durante gli ultimi giorni di scuola, io e i miei compagni ci siamo spesso domandati se avessimo i requisiti base per sostenere l’esame di stato: eravamo adatti ad affrontare la maturità, eravamo “maturi”? Maturi, vale a dire “portati a compimento”.

Devo ammettere che, per quanto ho potuto dedurre dalla mia esperienza personale, complice la seria disponibilità dei professori, l’esame in sé è una prova che si può affrontare abbastanza facilmente, con una buona preparazione dall’inizio dell’anno. O meglio lo si potrebbe fare facilmente, se si riuscisse a essere davvero tranquilli. Cosa difficilissima, se non impossibile. Ma ciò che conta, in fondo, e che rimane vivo nel ricordo (se non altro, in quello di mia mamma, che dice di sognare ancora l’esame di maturità) è proprio lo stato emotivo. L’adrenalina. Alla fine di una strada percorsa in cinque anni, non so dire cosa concorra di più a creare lo stato emotivo dei tipici “maturandi”, se la paura, l’ansia, la voglia di dimostrare quello che si vale, la timidezza, la pressione della competizione, la stanchezza… ma una cosa la so: l’idea che si insinua nella mente di tutti è la consapevolezza di essere finalmente giunti a una meta, di aver “portato a compimento” un percorso intrapreso ben cinque anni prima, ancora ragazzini, con la nostra prima scelta davvero importante e “caratterizzante”.

Tredici anni della mia vita sono stati determinati quasi in ogni aspetto dalla scuola, e addirittura, come quelli di ogni studente, numerati e calcolati in base agli anni, ai mesi, ai giorni scolastici. Dopo quattro giorni, mi sento di dire che di fronte alla commissione si sta come in piedi, al fondo di un lunghissimo corridoio, di fronte ad una porta scura, imponente e un po’ inquietante, in procinto di attraversarla, possibilmente senza inciampare. Una porta fatta di fogli a protocollo timbrati, orari da rispettare, dizionari di greco, silenzi, definizioni di matematica imparate a memoria, passi sul corridoio, strette di mano, e soprattutto domande e risposte. Una porta ancora costruita con i mattoni della vecchia scuola superiore, ma solo da un lato.

Il problema, dopo averla attraversata, è quali saranno e quali vogliamo che siano i materiali dell’altro lato, i colori della stanza in cui ci inoltriamo. Non so a quanti altri sia accaduto, ma io ho veramente scelto la facoltà a cui iscrivermi durante gli esami. Dopo continui ripensamenti, le parole del presidente di commissione mi hanno “illuminata”, quasi che solo alla fine di tutto potessi essere pronta all’inizio di un nuovo “tutto”. È una strana maturazione, in effetti, che a ben vedere sembra avere più a che fare con un inizio che con un compimento. D’altra parte, la parola “maturo” ha curiosamente la radice del termine latino manis, da cui mane, mattino, e matutinus. E il mattino è l’inizio della giornata, quando le forze sono al massimo, i sensi più acuti.

Così sono i maturati, come a un risveglio, come all’inizio di una nuova giornata, insieme compiuti e “da iniziare”, al culmine delle loro forze e delle loro possibilità, con qualche paura, un grande vuoto, e soprattutto pieni di curiosità e di sogni per il futuro. Mi sembra il caso di ricordare allora, quasi a volere sussurrare parole di buon augurio, che il mattino ha l’oro in bocca.

 

Sara Ruocco



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