12 luglio 2010

LA CRISI: CRITICA AL PUNTO DI VISTA CORRENTE


 

Negli anni ’30 andava forte quel motivetto di Petrolini che faceva “Ma cos’è questa crisi?”, e lo si canterellava con tono leggero, come a dire “mah, alla fine ne abbiamo viste tante, e passerà anche questa”. In effetti, è passata sulle rovine d’Europa e di tante altre parti del mondo. Di fronte alla nostra crisi, Berlusconi finora ha canterellato anche lui il refrain d’antan, coltivando la speranza che qualcuno ce la togliesse di torno: l’importante nel frattempo era far finta di niente. Ma ora, le parole si smorzano in bocca e il motivetto si spegne anche tra i più accaniti fan del Cavaliere: la realtà presenta il conto.

A noi di sinistra toccherebbe solo di essere conseguenti al nostro rigore, appoggiando le misure di protezione dai rischi di sistema che incombono. In realtà, il margine di manovra politica della sinistra potrebbe essere più ampio se si guardasse alla natura autentica della crisi odierna e alle sue implicazioni politiche. Per molti, per troppi, la crisi appare nata e generata unicamente nel grembo immondo della finanza, e più precisamente della sua figlia prediletta: la speculazione. Questo viene attestato dalla semplice constatazione del fatto che a un certo punto non ci sono più soldi. I soldi sono spariti, e perbacco questa è finanza. In realtà, se pure va dato alla speculazione ciò che è della speculazione, e non sfugge a nessuno il suo smisurato peso sull’economia globale, la genesi della crisi non deriva dalle sue operazioni spericolate e immorali, ma dall’ineguale distribuzione della ricchezza che ne ha posto le premesse essenziali su scala mondiale.

Riconosco che quest’affermazione possa sembrare retrò, sindacaleggiante, per non dire, ahimè, comunista, ma stiamo ai fatti. Quando si parla dei mutui subprime, e degli insostenibili castelletti finanziari eretti dalle famiglie americane, ci si deve chiedere perché la classe media americana a un certo punto abbia “pensato” di vivere al di sopra delle proprie possibilità. Il fatto è che la classe media non è che volesse vivere “sopra le proprie possibilità” ma piuttosto desiderava mantenere il suo status, l’american way of life, trovando però sempre più difficoltà a farlo con gli stipendi correnti. Tutte le statistiche dimostrano come il reddito degli americani, dopo la ventata liberista del vecchio Ronnie, si sono progressivamente divaricati: da un lato, una fetta minoritaria sempre più ricca, dall’altra parte la grande maggioranza del paese con sempre meno reddito. L’impoverimento della middle class americana non solo ha tolto il combustibile per fare girare l’economia americana, diminuendo la massa monetaria per sostenere la domanda interna di beni e servizi, ma ha innescato vere e proprie bombe strutturali, nei conti, nelle teste e nei cuori degli americani.

L’enorme crescita di risorse finanziarie appropriate dalla minoranza degli iperricchi americani ha riversato nel mondo una quantità sconsiderata di capitale che cercava di valorizzarsi prevalentemente senza passare dalla produzione di beni e servizi. Oggi gli attivi finanziari in libertà assommano all’astronomica circa di 640 trilioni di dollari, mentre il PIL mondiale a soli 150! Questa benzina, questo enorme surplus monetario privato, ha alimentato il primo fuoco della speculazione. Dall’altro versante, la middle class ha cercato di contrastare l’erosione del proprio stile di vita. Non potendolo difendere con il reddito, l’ha difeso con il debito. Un debito crescente che “appariva” sostenuto da un nuovo reddito aggiuntivo, in realtà del tutto “immaginario”, rappresentato virtualmente dall’incremento esponenziale dei valori immobiliari a loro volta acquistati a debito. Quindi case a debito, carte di credito a debito, auto a debito… Ma un debito è un debito, e i debiti alla fine si pagano, specie se chi ce lo ha concesso è a sua volta indebitato con qualcun altro.

Questa benzina, l’impoverimento della classe media americana, ha alimentato il secondo fuoco della speculazione. L’ineguale distribuzione della ricchezza ha posto le premesse materiali per il dilagare senza freni della speculazione e del resto, per avere la controprova, basta guardare al mondo degli anni ’80.

Procedendo per schizzi di getto, veniamo ai casi italiani. Un primo dato: il 10% della popolazione italiana detiene oltre il 40% della ricchezza totale del Paese. La questione della debolezza della domanda interna sembra avere sostanza se il 90% della popolazione vi può destinare solo il 60%. Un altro dato: il debito pubblico italiano assomma attualmente a circa, punto più o punto meno, oltre il 115 % sul PIL nazionale, e questo grava sui conti del Paese come una soma insopportabile. Un ultimo dato, larghissima parte del PIL italiano è generato dalle esportazioni: se la domanda mondiale cade, siamo in braghe di tela.

Eccoci allora nel vivo della questione: se la domanda internazionale espressa dai Paesi come Usa e Germania è bassa e rimarrà tale, come se ne viene fuori? Non certo alzando il debito pubblico. Quindi non solo niente domanda aggiuntiva keynesiana, ma come ci spiega Tremonti: taglio delle spese dello Stato. Ma, ammesso pure che i tagli vengano apportati equamente, cosa di cui si “deve” dubitare, resta oggettivo che tagliare il debito aumenterà pure il nostro rating internazionale, ma deprimerà il nostro corso economico.

Qui si arriva alla seconda parte della questione politica: come possiamo riattivare il ciclo economico, se la spesa pubblica resta al palo e la domanda internazionale latita? Potenziando la domanda privata interna: tertium non datur. Solo i consumi privati, famiglie prima e imprese poi, possono alimentare una nuova corsa, è oggettivo. Ma senza redditi aggiuntivi le famiglie non spendono e non alimentano domanda aggiuntiva.

Ed anche qui la speculazione non c’entra nulla.

C’entra l’ineguale distribuzione della ricchezza: una ricchezza che, per non essere stata equamente distribuita, è divenuta ricchezza da capitale, in moneta, titoli o immobili, che si preferisce non reinvestire né tantomeno consumare, come quei famosi 100 MLD di euro dello Scudo Fiscale, “bonificati” da Tremonti, ma certamente non rientrati nel circolo dell’economia italiana, che sennò se ne sarebbe ben visto l’effetto.

Veniamo da 20 anni di liberismo, e questo è il risultato e l’insegnamento finale sotto tutte le latitudini: riconosci meno reddito a chi lo produce, direttamente (stipendi) o indirettamente (tasse per servizi), e avrai meno domanda monetaria a tutti i livelli, quindi meno consumi e quindi ciclo economico debole. Ora, se la gente in Italia e nel mondo la riattivazione di un ciclo economico avverrà solo se rivedremo radicalmente i meccanismi di distribuzione della ricchezza. Questa, per quanto apparentemente impervia, è la strada della sinistra, che si tratti di tassare le rendite finanziarie o di re-introdurre la patrimoniale secca o altro ancora. Dico apparentemente impervia perché bruciano ancora gli ultimi fuochi del credo liberista, ma lasciate che la crisi incida ancor più nel corpo vivo della società, e si toccherà con mano presto la domanda politica delle classi più tartassate verso provvedimenti redistributivi. Se mancherà vision e coraggio, a Bersani & Co, non resterà altro che cantererellare a loro volta “ma cos’è questa crisi?”, distinguendosi dalla destra solo per qualche dettaglio di stile, nella speranza comune che qualcosa, non si sa cosa, ma qualcosa di grosso, ci spinga fuori dalla crisi.

Se questo qualcosa, magari l’Italico Stellone, non si materializzerà, saranno tempi durissimi, scenari foschi e, se va bene, tanti tanti sacrifici… quelli dei nostri nonni.

 

Giuseppe Ucciero



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