5 luglio 2010

UGUAGLIANZA E DIRITTO ALLA SALUTE


 

Alcuni anni fa partecipai a un convegno medico nel corso del quale un collega, destinato a futuri successi più in campo politico-aministrativo che in quello medico-scientifico, affermò che parlare di diritto alla salute è una sciocchezza. Se per tale si intende il diritto a essere in buona salute si può consentire con questa affermazione, dato che la medicina non è onnipotente ed esistono malattie che ancora non si è in grado di guarire. Ma se si intende il diritto a potere utilizzare tutti i mezzi diagnostici e terapeutici esistenti per combattere contro le malattie, senza discriminazioni di censo o per altre disuguaglianze, come credo che intendesse la nostra costituzione, allora penso che il diritto alla salute sia sacrosanto. E questo può essere un motivo di vanto per il nostro paese che ha, sulla carta, un ottimo Sistema Sanitario Nazionale da ben prima che il presidente Obama dovesse lottare per introdurre qualcosa di simile negli Stati Uniti d’America.

Ma possono di fatto tutti gli italiani o, più in generale, tutti gli abitanti del nostro paese fruire pienamente di questo diritto? Credo che in linea di massima, almeno per i cittadini italiani, la risposta possa essere positiva, ma con un’importante limitazione e spiegherò perché. Mi riferisco sopattutto al caso, ben noto, delle liste di attesa lunghissime che si accumulano nelle strutture ospedaliere per l’esecuzione di indagini cliniche complesse o visite specialistiche a carico del Sistema Sanitario Nazionale, che invece, in regime libero professionale, diventano molto più celeri. Chi non ha i mezzi per pagarsi questo rapporto privato, oggi, in tempi di disoccupazione crescente, non ha il diritto di considerarsi menomato nel suo diritto alla salute?

Rilevando questo non voglio colpevolizzare nessuno, perché so che il problema non è dimenticato dalle autorità competenti, anche se dubito che lo sia nel modo adatto a risolverlo, ma voglio solo fare qualche osservazione sulle radici di tutto questo che, a mio giudizio, sono culturali e giuridiche prima che amministrative. Tra coloro che hanno difficoltà a fare rapidamente delle indagini cliniche vi sono ammalati per i quali questo è un problema di vita o di morte, per esempio quando si sospetta un tumore maligno, e vi sono ammalati per i quali l’indagine è fatta per completezza osservazionale, in assenza di una precisa ipotesi che la suggerisca. Vale a dire che la maggioranza delle indagini cliniche è destinata a dare un risultato normale, anche se ve ne sono alcune che possono fornire chiarimenti di grande importanza.

Naturalmente è possibile solo con un certo margine di fallibilità stabilire a priori la probabilità che un’indagine clinica dia un risultato informativo. Ma fare questo significa fare un ragionamento clinico e avanzare una o più ipotesi diagnostiche che con le indagini cliniche debbono essere corroborate o escluse. Temo che questa abitudine si vada perdendo nella medicina di oggi proprio perché i trionfi della tecnologia hanno suggerito l’idea che con il progresso tecnico i problemi diagnostici sono superati, mentre questo non credo sia vero. Infatti, i medici sono portati a credere che gli esami clinici siano una specie di scandaglio con il quale si esplorano alla cieca i misteri del corpo malato, mentre questa esplorazione deve avvenire soprattutto con il ragionamento.

Non che sia sbagliata l’idea di un esame quanto più approfondito possibile di ogni singolo caso clinico, ma perché questo è praticamente attuabile solamente con indagini poco costose che si eseguono rapidamente, mentre le più complesse, e costose, debbono essere scelte sulla base degli elementi preliminari facilmente valutabili, come la storia clinica, una visita medica completa e ben fatta (consuetudine che si va perdendo), al massimo poche semplici indagini strumentali e di laboratorio. Se quindi, le indagini cliniche venissero eseguite solo in base a ipotesi, sicuramente sarebbero chieste in numero minore e sarebbe più facile salvaguardare il diritto alla salute dei meno privilegiati nella scala sociale.

Ma chiedere ai medici di limitare la richiesta delle indagini cliniche in base alla loro abilità di avanzare ipotesi diagnostiche li carica di una pesante responsabilità, perché, per bravi che siano, sono tuttavia fallibili, e limitare il numero degli accertamenti più approfonditi comporterebbe la possibilità che sfuggano elementi diagnostici importanti. Questo avrebbe anche conseguenze legali, perchè aumenterebbero i casi di richieste di risarcimento, se non di conseguenze penali, quando si accertasse che un’indagine importante non è stata chiesta, sia pure in assenza di ogni indicazione ragionevole alla sua esecuzione. Occorrerebbe pensare a tutto questo e stabilire dei criteri di giudizio che salvaguardino i medici da azioni legali avventate. Il che non toglie che sarebbe certamente bene che nell’educazione universitaria dei medici venisse dato lo spazio adeguato al metodo clinico, il che oggi per lo più non avviene. Nell’attesa del conseguimento di questo ideale culturale, rassegnamoci all’idea che il diritto alla salute non è uguale per tutti. E questo sarà sempre peggio con i progressi della medicina che offrono strumenti diagnostici sempre più efficaci, ma più costosi.

Quanto detto riguarda i cittadini italiani che, almeno in teoria, dovrebbero essere pienamente visibili per le istituzioni dello stato. Ma la nostra penisola è abitata anche da esseri umani che da questo punto di vista sono completamente invisibili. Parlo degli immigrati, o almeno di quelli non in regola con i documenti, i cosiddetti clandestini. Il nostro sindaco ha detto recentemente che gli immigrati clandestini di regola delinquono. Ci sono state in Italia più sanatorie, l’ultima proprio da parte dell’attuale governo cui vanno le simpatie politiche del nostro sindaco, con le quali si sono regolarizzate le posizioni di varie centinaia di migliaia di immigrati che prima, secondo i criteri dei sodali politici del sindaco, potevano essere definiti clandestini. Ebbene, se ci si basa su questi numeri bisognerebbe concludere che gli immigrati clandestini di regola lavorano e non delinquono. Eppure, questi abitanti della nostra penisola sono totalmente invisibili per quanto riguarda il diritto alla salute, che non li riguarda. Ho già scritto su ArcipelagoMilano qualcosa a proposito della possibilità di denunciarli quando chiedono soccorso a una struttura sanitaria e, di fatto, credo che chiedano questo il meno possibile, figurarsi se chiedono una tomografia assiale o una risonanza magnetica. Eppure, a me medico, tutto questo fa una grande impressione. In politica ci si è scagliati contro il “buonismo”, ma forse non era il caso di passare al “cattivismo”. Eppure sembra che il cattivismo serva al sucesso elettorale. Questi sono i tempi in cui viviamo. Tristi.

 

Claudio Rugarli

 

 


 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti