28 giugno 2010

MENO DENARI PER I CONSIGLIERI COMUNALI: E QUELLI REGIONALI?


 

Il decreto sulla “manovra” riduce sensibilmente il compenso dei consiglieri comunali e induce a riflettere su due temi: quale sia la remunerazione “giusta” dei politici, e quali siano le procedure per determinarla. Sul secondo punto vediamo che il governo ritiene di poter determinare il compenso dei consiglieri comunali ma non quello dei consiglieri regionali, data l’autonomia che la Costituzione riconosce alle Regioni. I consiglieri comunali si sentono (giustamente) discriminati, mentre dalla Regione Lombardia non è arrivato alcun segnale di volersi adeguare al clima di austerità.

Parlamentari e consiglieri regionali sono l’unica categoria che può autodeterminarsi la remunerazione, né l’elettorato può avere alcuna voce in proposito visto che le norme sulle remunerazioni sono di regola approvate alla pressoché totale unanimità da tutti i partiti. Su questi aspetti la “casta” è indifferente alle sempre più diffuse critiche. Col federalismo fiscale sarebbe opportuno fissare regole a livello nazionale per determinare i “costi standard” dei consiglieri regionali (che in Italia sono molti), sottraendo questa materia all’autonomia delle Regioni.

Su quale sia il livello “giusto” di remunerazione il capogruppo dei DS al Comune, Majorino, ha richiamato il tradizionale concetto che una remunerazione “dignitosa” è necessaria per assicurare che possano dedicarsi al servizio della collettività anche i “poveri” e non solo i ricchi. Giustissimo; ma, soprattutto per chi si propone appunto come difensore dei “poveri”, una remunerazione pari a due/tre volte quella di un operaio dovrebbe essere sufficientemente dignitosa!

Remunerazioni molto più elevate sono negative non solo e non tanto per l’onere sulla finanza pubblica quanto per gli effetti sulla coesione sociale e sulla selezione della classe politica.

I consiglieri regionali lombardi si sono assegnati un trattamento (salario, rimborsi spese forfettari, indennità di fine legislatura etc.) che vale circa un milione di euro per legislatura, senza contare il vitalizio. Con una remunerazione di questo tipo possiamo pensare davvero che si candidino solo persone spinte dalla passione per la politica e per il servizio alla collettività, come dicono? O non è più probabile che cerchino di farsi avanti ogni genere di “affaristi” e opportunisti che altrimenti della politica s’interesserebbero poco o nulla? La spesa per la campagna elettorale diventa un buon investimento, e chi può più spendere è avvantaggiato: torna così il vantaggio di essere “ricchi”. Un’alta remunerazione non assicura la selezione della migliore classe politica, anzi il contrario!

Consideriamo ora l’aspetto “coesione sociale”. In Italia il divario tra remunerazioni della classe dirigente e della gran massa della popolazione si è andato allargando di molto. Nel settore privato il fenomeno può essere limitato favorendo la concorrenza che, se c’è, può giustificare anche ampi differenziali. Se i divari sono invece dovuti a posizioni di rendita o ope legis indeboliscono la coesione sociale e incentivano l’evasione. Quale credibilità può avere chi lancia condanne morali contro gli evasori essendosi esso stesso attribuito una remunerazione formalmente “legale” ma sproporzionata nella sostanza? I paesi dove l’evasione è bassa e l’economia prospera sono quelli nei quali vi è alta coesione sociale, e questa dipende molto anche dall’esempio che viene dalla classe politica.

E’ ben noto invece che i nostri politici si pagano molto più dei loro colleghi di altri paesi europei, soprattutto se a paragone del reddito medio del paese. Aggiungiamo poi, con Dante, “e il modo ancor m’offende”, per accennare ai sotterfugi con i quali si cercano di occultare le vere remunerazioni, come i rimborsi spese forfetari e privilegi negati a tutti gli altri cittadini come il rimborso delle spese di viaggio da casa alla Regione o l’indennità di un anno di stipendio a ogni fine legislatura. Dispiace che norme come queste siano approvate anche col voto di chi dice di rappresentare i ceti popolari.

 

Giorgio Ragazzi



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