21 giugno 2010

LA PENSIONE A 65 ANNI PER LE DONNE: LA PARITÀ O UN PALLIATIVO?


 

In questi anni il tema della pensione è stato al centro di riforme, dibattiti, discussioni. In una società agricola, che è quella da cui proveniamo, non c’era la pensione e nonni e nonne continuavano a rendersi utili, collaborando alle attività della famiglia. Ma la famiglia era una “azienda”, in cui attività di cura, di servizio, di produzione (i vestiti, le marmellate, la pasta in casa…) vedevano impegnate le donne. Poi lo sviluppo economico ha comportato che invece di comprare la farina per fare le torte, ci si rivolgesse a una società di catering! Il Pil (prodotto interno lordo) aumenta, ma forse non il Bil (benessere interno lordo), in quanto il Pil non tiene conto dell’autoproduzione, né del consumo delle risorse naturali, né della qualità della vita.

In questi anni molte cose sono cambiate, in particolare mentre la generazione precedente aveva solo il 4% di persone sopra i 65 anni, l’attuale ne ha ben il 20%. La piramide della vita è rovesciata, con pochi giovani alla base e tanti meno giovani alla vetta. Che dire poi della qualità del lavoro: accanto a lavori noiosi, usuranti ci sono tanti lavori che piacciono e che non si vorrebbero mai lasciare, per cui la pensione viene vista con angoscia e mette in crisi spesso uomini e donne. Forse meno le donne, perché abituate al doppio lavoro, aspettano la pensione per fare con più agio tante cose che durante il periodo lavorativo hanno dovuto tralasciare.

E poi ci sono i nipoti da curare, perché ancora in Italia il tasso di donne che lasciano il lavoro quando nascono i figli rimane molto alto, a differenza di quanto avviene nei paesi del Nord Europa, dove migliori servizi per la famiglia, un’organizzazione del lavoro che accetta il part time anche in posizioni di vertice, si combinano con un tasso di attività maggiore delle donne e una natalità più alta. Spesso le donne hanno anticipato la pensione proprio per poter dedicare più tempo alle attività di cura, degli anziani o dei nipoti, per poter offrire alle figlie opportunità di carriera migliori. In questi anni si è discusso molto di parità uomo donna, e nell’art. 37 Cost. può leggersi una specificazione del principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3: ” La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” (comma 1). “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione” (comma 2.). Con riguardo ai rapporti di lavoro la disposizione sopra riportata vieta le discriminazioni a danno delle donne e, al tempo stesso, impone l’adozione di trattamenti speciali che tengano conto della peculiarità proprie del ruolo materno e familiare delle donne stesse.

Tuttavia tale norma non obbliga le donne ad anticipare l’età della pensione: un obbligo in tal senso sarebbe anticostituzionale. Infatti nel mondo dell’Università (parliamo sempre di lavori privilegiati) le donne vanno ora in pensione alla stessa età degli uomini, a settanta anni. Quali sono le conseguenze di un’età della pensione più bassa? Le statistiche sottolineano che mediamente la pensione delle lavoratrici, a parità di stipendio, risulta più bassa di quella dei lavoratori del 25-30% (Laura Vitale), mentre un’età pensionistica più bassa si traduce in una pensione inferiore del 12-15%. Andare in pensione prima significa infatti una carriera meno lunga, e, se insieme si considera come il percorso lavorativo della donna spesso abbia dei momenti di pausa, di fatto si arriva al momento della pensione con un montante accumulato più basso. Quali le soluzioni?

Che l’allungamento della durata media della vita imponga di rivedere l’età pensionabile rimane indubbio. Probabilmente la risposta deve essere molto articolata. Se vogliamo effettivamente la parità fra uomo e donna, bisogna cominciare a operare durante la vita lavorativa, con un’organizzazione del lavoro che tenga conto anche dei bisogni della famiglia: spesso le donne non fanno carriera e quindi arrivano all’età della pensione con uno stipendio più basso perché le riunioni si fanno alla fine della giornata: ma anche se ci sono asili d’infanzia, scuole a tempo pieno, i bimbi non possono essere sempre lasciati a estranei. L’educazione è compito della famiglia e delegarla completamente non fa crescere persone autonome, sicure, in grado poi di fare il bene della società. Quindi le mamme cercano di essere a casa per cenare almeno con i figli, ma sarebbe utile che ci fossero anche i padri…Quindi le riunioni andrebbero solo fatte in ore che concilino bimbi e lavoro. Probabilmente la caduta della natalità in Italia, sostituita dall’immigrazione, è la conseguenza anche di questo. Fra parentesi, non capisco perché l’asilo nido debba costare di più delle tasse richieste dai corsi universitari. Il risultato è la rinuncia a fare bambini, mentre gli studenti universitari, visto che l’università costa poco, perdono tempo.

Proseguendo nel discorso, la parità uomo donna non può limitarsi all’età della pensione, in quanto occorre parità anche prima. E se un maggior periodo lavorativo significa riconoscere alla donna maggiori possibilità di carriera e la presenza in posti chiave, ben venga questo innalzamento. Va bene poi aumentare l’età pensionabile, ma investendo nei servizi alle famiglie e introducendo alcune norme di flessibilità. Per esempio maggior disponibilità al part time, ma senza che questo significhi, se la pensione è retributiva, una penalizzazione di chi lo chiede. La pensione potrebbe calcolarsi sul parametro tempo pieno, senza portare a decurtare l’assegno pensionistico, per esempio.

Occorre poi osservare che con il sistema contributivo e con lo sviluppo della previdenza integrativa un altro aspetto critico sta venendo al pettine. A parità di montante e di età in cui si chiede l’assegno previdenziale, ora la pensione delle donne è minore rispetto a quella degli uomini, poiché le assicurazioni e i fondi pensione, anche negoziali, applicano tavole di mortalità diverse fra uomo e donna. La questione che si pone a questo punto è se non sia maggiormente equo usare una tavola di mortalità unica, tenendo conto che dietro a un uomo di successo c’è sempre una donna che l’ha supportato.

Quindi non erigerei le barricate per questa norma dettata dalla UE, anche se probabilmente la UE dovrebbe intervenire anche per far sì che la famiglia abbia servizi migliori. Serve invece il contributo di uomini e donne, affinché i giovani non vivano di precarietà e se lavorare di più riduce il costo complessivo del lavoro, sono disposta a fare qualcosa per i nostri giovani.

 

Alessandra Tami

 

 

 

 


 



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